Archive for August, 2010

Beirut/Dispacci #9

Stasera, mentre ci allontanavamo da Tiro e sotto gli occhi sfilavano carri armati con militari sulle torrette e gigantesche bandiere della Germania a celebrare l’orrore hitleriano, questa canzone mi è sembrata quasi una preghiera.

Santa Lucia per chi beve di notte/
e di notte muore e di notte legge/
e cade sul suo ultimo metro/
per gli amici che vanno e ritornano indietro /
e hanno perduto l’anima e le ali/
per chi vive all’incrocio dei venti/
ed è bruciato vivo/
per le persone facili che non hanno dubbi mai/
per la nostra corona di stelle e di spine/
per la nostra paura del buio e della fantasia/
Santa Lucia, il violino dei poveri è una barca sfondata/
e un ragazzino al secondo piano che canta ride e stona/
perché vada lontano/
fa che gli sia dolce anche la pioggia delle scarpe/
anche la solitudine.

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Beirut/Dispacci # 8

Sottotitolo: cogliere i segnali.
Siamo di nuovo prossimi al confine sud. Leggo sui giornali di qualche scaramuccia tra Hez e Israele, poi chiama un’amica da Beirut per dirci che alla radio hanno dato la notizia di scontri quaggiù.
Per la prima volta nella vita, mi avvicino all’idea di cosa possa voler dire vivere sempre all’erta, cercare di cogliere i segnali di quello che potrebbe succedere prima che sia già successo: i carri armati sono scoperti? Quanti elicotteri stanno volando? I mezzi Unifil come si muovono? Quante famiglie passano il check point dirette a nord?
È una tensione che si interiorizza, immagino. Ma inedita per chi vive in via Vigevano.
La nostra padrona di casa ride, dice che l’ambasciata le dà 500 dollari al giorno per proteggerci. Sua nipote fa l’estetista: ho fissato manicure e pedicure per domani. Edoardo: fantastico, moriamo sotto le bombe, ma tu sarai elegantissima.

Update: è uno scontro fra eserciti, a 17 km da dove siamo. Hez non c’entra ancora nulla. Quattro morti confermati, tre libanesi e un israeliano; i libanesi dicono ovviamente che hanno iniziato gli altri violando il confine. La gente è ipnotizzata davanti alle tv; questa sera Nasser, capo Hezbollah, decide se entrare o no nel conflitto: alle sei si attende un suo discorso.
Qui la gente dice che tutto dipende da se gli fanno o no recuperare i cadaveri.

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Beirut/Dispacci #7

Glielo ho chiesto due volte al telefono, Cherokee? Is that the cheapest?, e il tizio mi ripeteva tutto convinto, Cherokee, yes yes, the cheapest; così abbiamo imbarcato Marco e Nicola e raggiunto baldanzosi l’autonoleggio. La macchina in effetti era la più economica, solo che si trattava di una Chery-Que, manifattura cinese, simil berlina, leggera come il mio vecchio Zip e con un motore che il Monster in confronto sembra la M1 di Valentino Rossi. I ragazzi erano comunque tutti entusiasti – se poi volessimo aprire un capitolo dal titolo Come trasformare un qualsiasi uomo, meglio se maturo-sensibile-artistico-impegnato-e-poi- certo- giammai-turista-sempre-viaggiatore, in un diciottenne  eccitato come quando rubava la macchina alla mamma semplicemente con due ruote da far sgommare, bè, avrei molte riflessioni da regalare all’umanità – dicevo, tra la gioia dei ragazzi e il traffico più delirante del solito per la presenza in citta dei capi di stato mediorientali e conseguente dispiegamento dell’esercito intero, abbiamo lasciato Beirut in direzione Bekaa.

Con il consueto acume, siamo arrivati a Baalbek, quartier generale di Hezbollah, di venerdì, il giorno del riposo per il mussulmano medio, figuriamoci per quello integralista. Qualsiasi negozio chiuso e sole a picco sulla testa, abbiamo vagato per le rovine archeologiche finché Edo ed io ci siamo messi a importunare coppiette per far loro delle foto. Dietro al sito, in una sorta di grotta di fortuna, Hezbollah ha costruito un grottesco mausoleo con gigantografie di bambini mutilati dagli attacchi israeliani e guerriglieri di cera che imbracciano mitra. Il tutto illuminato da luminarie in stile natalizio e condito da un’affissione dieci per tre in con i nomi delle città israeliane all’interno di mirini, con la scritta If they will be back we will be back. Roba di un certo understatement, insomma.

Tratti in inganno dalla lonely planet, e dalla fame di Marco, abbiamo mangiato nel peggior fast food del Libano, un piatto composito in cui persino il pane era gommoso – il tutto per scoprire dopo venti minuti che mezzo chilometro oltre si apriva un giardino dell’Eden traboccante ristoranti all’aperto e narghilè fumanti: almeno il narghilè comunque ce lo siamo aggiudicati. La situazione ha iniziato a precipitare – per me – quando ai tavolini del bar i ragazzi si sono sostanzialmente dimenticati della mia presenza, e la conversazione è lentamente scivolata dalle magnifiche sorti et progressive del Libano al sesso orale a New York e dintorni, con punte pregevolissime come la teoria dell’insetto (sottotitolo: come liberarsi di una portata a casa da sbronzi la mattina successiva) e la narrazione di epiche scorribande fiorentine – roba un po’ da vecchie glorie, fossi negli uomini rifletterei sul loro lento incedere verso la nostalgica dimensione del ricordo.

In ogni caso, tra una narrazione e l’altra, c’è stato il tempo di incontrare il custode dell’albergo più antico del Libano, un posto assolutamente decadente ma meraviglioso, dove nei momenti migliori soggiornavano De Gaulle e Cousteau, Fairuz e Salazar; abbiamo preso un caffè nel suo giardino con le mattonelle un po’ traballanti, e in una lingua creola tra arabo, inglese e francese siamo riusciti a farci raccontare alcune storielle carine.

Da Balbeek siamo ripartiti l’indomani in direzione Shouf, l’unica riserva naturale del paese. Se Beirut è uno spaventoso conglomerato di cemento, l’interno del Libano è arido e brullo come il deserto: le rocce sono rosse come l’hashish per cui sono famose le sue vallate, e la vicinanza con la Siria rende il paesaggio ancora più esotico, con tribù di beduini che passano il confine e piantano le proprie tende in prossimità dei campi di patate, l’unica coltivazione intensiva. Per vedere i cedri che campeggiano fieri sulla bandiera è necessario raggiungere la foresta, un cinquantina di chilometri sopra la città, un piccolo polmone che farebbe ridere qualsiasi abitante della Valle D’Aosta ma rappresenta un angolo di paradiso per chi da Beirut scappa in cerca di natura. Le strade per raggiungerlo, come d’altra parte quelle dell’intero paese, sono congestionate e totalmente prive di segnaletica: l’ideale insomma perché giovani adulti alla soglia dei 40 anni vogliano dimostrare la propria virilità al volante. Con Delille devastato dal raffreddore – durante il percorso ha creato una sottospecie di molotov di secrezioni nasali infilando a getto continuo fazzoletti fradici in una bottiglietta al mio fianco – il fotografo Pinarelli appena sbarcato da Barcelona ha ingaggiato una competizione a suon di colpi di clacson e freni a mano coi libanesi; spiace ammetterlo ma ci sa fare, quasi riusciamo a farci silurare un paio di volte.

Abbiamo trascorso la notte in un eco-village, un posto carino nonostante le carte di Osho (sic) posizionate in bella vista all’ingresso della mensa; atmosfera un po’ alternowell, con il maestro di yoga che medita in solitudine, un menù vegetariano (la mia conversione è pressoché fatta, devo solo risolvere i conti col pesce), un fiumiciattolo dove fare il bagno e tutto un sentimento ambientalista a 40 dollari a notte: non proprio irrisorio trattandosi del Libano. La capanna sull’albero dove abbiamo dormito mi ha regalato comunque le otto ore di sonno migliori dell’ultimo anno, credo.

Oggi ci siamo infilati in una sagra locale, abbiamo mangiato-sudato-mangiato-ascoltato a massimo volume una cassetta (cassetta!) di musica dance araba comprata l’altra sera, rigorosamente coi finestrini tirati giù e i gomiti fuori, e Marco che tirava il freno a mano ogni volta possibile.

Domani, per calmarlo, lo infiliamo su un minibus per il sud; io ed Edo torniamo sul confine, lui può sfruttare il percorso per un corso accelerato di guida di minivan. Se impara quello, il Libano è nelle sua mani.

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