Dispacci, Tel Aviv #3


La prima mattina è trascorsa in spiaggia, ché con 37 gradi e altrettanti chilometri di sabbia bianca sarebbe stato difficile fare altrimenti.

Abbiamo pedalato su un lungomare che avrebbe potuto essere Rio o la Barceloneta, zeppo di gente e delle loro stranezze: runner appanzati con le radio sotto braccio, caschi integrali su honda mille che sgasano da ferme, giapponesi ricoperti di simil-burkini integrali in tessuto ultra tecnico per non cuocere al sole. 

Dappertutto bandiere d’Israele, musica e le schioppettate ritmiche di una speciale varietà di racchettoni di cui si consumano tornei infiniti, con colpi sordi e precisissimi che da lontano sembrano percussioni africane e da vicino tentativi di catarsi di ventenni che passano la giovinezza con la divisa addosso e un mitragliatore in mano.

In effetti poche ore dopo un’amica di amici, nel salotto di una casa ottomana nella vecchia Jaffa, ci ha raccontato di aver trascorso il weekend a fare da volontaria in un festival in cui militari in libera uscita consumano litri di alcol e acido lisergico per dimenticare il mondo; poi, cotti, cercano l’aiuto dei volontari per uscire dai propri incubi. A volte funziona; spesso no. 

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