Dispacci, Ramallah #5


Ore passate a chiederci se e come superare il checkpoint in macchina – ma glielo chiediamo all’assicurazione se si può? ma ci portiamo dei libri da mostrare? ma al limite parcheggiamo la macchina e andiamo a piedi dall’altro lato? – e poi la AiGo bianca motorizzazione probabilmente 600 ma forse anche due e mezzo che ci hanno noleggiato ha passato il confine Gerusalemme-Ramallah senza che nessuno chiedesse nemmeno un documento. 

Il consueto casino di Ramallah ci ha risucchiato in men che non si dica: strade sempre sporche, attraversate da automobili praticamente in qualsiasi direzione possibile – diagonale rispetto al senso di marcia, suonando il clacson in continuazione, tra le preferite -, urla di venditori e, invenzione recente, altoparlanti che trasmettono l’intero prezzario della merce esposta senza soluzione di continuità.

Abbiamo parcheggiato come si fosse sui Navigli, tra un camion carico di foglie di vite e uno scassone senza marmitta, e siamo andati a cercare un posto per pranzo. Dalla mia ultima volta in Palestina qualcosina è cambiato – la circolazione  nei Territori e il passaggio con Israele sono decisamente più agevoli, i checkpoint pochi e poco presidiati (con un passaporto internazionale in tasca, certo: e non è una precisazione da poco contando che di là dal Muro non ce l’ha nessuno) – ma non certo la varietà della cucina.

Al decimo pasto consecutivo di shawarma (il contenuto del kebab, per essere meno aulici: che a Tel Aviv costa 20 euro nel posto più economico), ci siamo presentati davanti al consueto baracchino invocando anche solo una qualche forma di cous cous.

What you want?

What you have? 

Shawarma chicken. Or shawarma meat.

Rimandando la lezione sul mondo animale, ché la gerarchia della carne è più complessa ancora di quella degli ordini religiosi, abbiamo optato per il chicken. (Com’è che il pesce non entri nella dieta mediorientale non si spiega nemmeno con le prescrizioni kosher, che peraltro ai musulmani interessano poco: ma forse le Nazioni Unite dovrebbero iniziare ad occuparsene).

Prima di andare all’appuntamento coi miei amici palestinesi abbiamo guidato in mezzo al deserto che si apre appena fuori da Ramallah, prima costeggiando il muro dello scempio e poi tra colline di sassi e cespugli, in cui l’occhio può perdersi senza incontrare altro che rare baracche di lamiera abitate da beduini semi stanziali e complessi di cemento che parrebbero costruiti coi Lego: regolari, geometrici, perfettamente perimetrati, funzionalmente escludenti. Sono gli insediamenti dei coloni, naturalmente, recintati e angoscianti: per quanti soldi ti possa dare un governo per insediarti in mezzo al deserto e togliere terra agli altri, o per quanto il tuo dio possa suggerirti di farlo, ci vuole un certo stomaco per dedicare qualche anno della propria vita a rendere ospitale la roccia nuda e incandescente.

Arrampicati in cima a un cuccuzzolo, col sole a picco e la luce come lame negli occhi, il celebratissimo fotografo Gabriele Galimberti si è preso tre minuti per rivedere la storia della religioni: Secondo me ‘na mattina se so’ svegliati e c’era più caldo del solito, gli giravano i cojoni, gli son prese le visioni e ognuno s’è messo a pensare a un dio diverso.

Versione for dummies, ma magari non troppo.

[di Gerusalemme parleremo poi: basti dire per ora ch’eravamo ospiti da David Guetta]

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