Dispacci, Tel Aviv #2


La morte degli stereotipi, o di come siamo arrivati nell’aeroporto più sicuro e blindato del mondo e nessuno ci ha chiesto, controllato o contestato nulla.  Tempo per passare la sicurezza: 30 secondi esatti, a fronte di ore trascorse a sentire descrizioni terribili di come avrebbe potuto essere. Abbiamo pensato che fosse per via della preparazione allo shabbat, il sabato ebraico – meno addetti, meno attenzione, tutti concentrati a pregare – ma è stato chiaro appena arrivati a Tel Aviv che dello shabbat non gliene frega troppo a nessuno. 

 Credevo di arrivare a Miami, mi son sentita a Beirut. Man mano che il tassista si avvicinava a Florentine, il quartiere working class e ad alto tasso di immigrazione in cui abbiamo preso un garage trasformato in casa, più le case palazzine squadrate e sgretolate, con i fili della luce a penzoloni e i marciapiedi ingombri di calcinacci, facevano a pezzi la mia idea preconcetta di Tel Aviv (Gabri, poi, mi ha smontato anche quella di Miami: dice che oltre ai vetri, alle piscine e ai fisicati c’è molto di quel mescolone culturale per cui vado pazza. Lezione: non pensare troppo ai posti che non conosci, vacci e basta). 

Abbiamo ribattezzato il quartiere sganghy, sgangherato, e ci siamo messi a camminare un po’ a caso. L’ora di cena  era già passata da un pezzo e le strade – ancora una volta – sembravano meno piene di quello che ci si sarebbe aspettati dalla città che non dorme mai: solo dopo ho capito che i party di Tel Aviv iniziano dietro a porticine spesso anonime, nere e senza insegne. Per indicarle bastano i ragazzi in canottiera e facce disegnate che appaiono sui marciapiedi poco distante, disseminando indizi di un divertimento parecchio ferormonico. 

Ci siamo diretti al mare, zigzagando tra i richiami di festicciole improvvisate nei balconi di cemento sbucciato di ogni palazzo.  E qui, infine, il movimento: grappoli di persone sdraiate in sulla sabbia a bere o a parlare, e altre appena rinvenute dalla spiaggia in coda fuori da una gigantesca panetteria araba i cui muri, molto tempo fa, devono essere stati blu cobalto. Vuoi vedere che è quella che mi ha consigliato il mio studente?, ho pensato: e lo era, e già la strana euforia nei confronti della città che m’aveva preso appena scesa dal taxi si stava trasformando in passione.

Poco più in là, altri ragazzi stavano improvvisando un rave fuori da una macchina, mentre adulti con bimbi al seguito restituivano le bici in sharing. Cento metri oltre, nel parco enorme che costeggia il mare, ci ha investito l’odore di carne alla griglia. Lo abbiamo seguito e così, a mezzanotte, siamo incappati in un matrimonio etiope (o forse eritreo):  donne in bianco, uomini vestiti bene, lunga tavolata, due o tre a presidiare la brace. Ma mica erano i soli:  tutto il parco stava grigliando qualcosa. Decine di piccoli barbecue sfrigolavano di fronte a famiglie sdraiate su enormi teli colorati, o a giovani raccolti tra la griglia portatile e il narghilè:  arabi israeliani per lo più, ma non solo. 

E se lo spettacolo non fosse abbastanza assurdo, di quell’inconsuetudine capace di farmi innamorare in un istante con intensità direttamente proporzionale alla distanza col mio vissuto, abbiamo buttato un occhio giù, all’ultimo lembo di spiaggia, dove decine di persone passeggiavano giocando con la risacca, mentre i bambini sghignazzavano costruendo un castello di sabbia. 

Ho ripensato ai miei amici di Ramallah: se avessero potuto essere in quel parco con noi, forse qualcuno dei loro preconcetti si sarebbe sciolto insieme ai miei. 

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