La traversata del deserto


Passo un sacco di tempo a cercare di capire come diventare la persona che vorrei essere; a volte persino a provare a esserlo.
Con gli amici, quelli che considero famiglia, la chiamiamo “la traversata del deserto”; rende l’idea, salvo che non so esattamente dove finisce la sabbia, e inizio a credere che non finisca mai: succede solo che sei più attrezzato nell’aggirarti tra le dune.
La questione difficile, però, è definire cosa esattamente faccia parte della traversata del deserto: la psicoterapia ok, un buon punto di partenza, forse obbligato; lo yoga e la meditazione, certo; il silenzio, il respiro, il digiuno, lo sport; il combattere le aspettative senza smettere di sperare, l’attimo presente, il proprio ruolo nelle situazioni, lo sguardo allargato e l’occhio all’interno, eccetera. Qualcuno metterebbe nella lista la sospensione del giudizio ma io no, sono abbastanza onesta intellettualmente (smettere di raccontarsi storie su di sé: tappa tre o quattro della traversata) per sapere che non sono in grado di non giudicare: però ho imparato a cambiare idea, anche in fretta, a dire che ho sbagliato, a chiedere scusa.
Fin qui, comunque, siamo nel campo del lessico familiare a chiunque abbia intrapreso un percorso, un lavoro su di sé si dice in gergo, e ricordo che la prima volta che l’ho sentito dire con serietà ero una giovane donna senza troppa consapevolezza con un fidanzato di dieci anni e parecchia solidità più di me: l’idea sembrava promettente ma ero ancora nella fase in cui pensavo che si dicesse “lavorare su di sé” ma alla fine toccasse prevalentemente agli altri, e che in ogni caso lo strizzacervelli avrebbe risolto tutto solo per il fatto che mi sedevo sulla sua poltroncina per il corrispettivo di circa 3 euro al minuto. Dovevo  insomma ancora iniziare la traversata, 15 anni fa, e oggi provo un misto di tenerezza e pena per coetanei che sono ancora in quella fase, perché non solo non hanno la minima idea di quanto c’è da camminare, ma soprattutto non sano che prima o poi, volenti o nolenti, dovranno iniziare a farlo.
Dicevo, comunque, che ho sempre molti dubbi, agitati talvolta dalla pigrizia e altre dalla paura, su cosa rientri nel percorso: quali sono i confini del mio essere legittimata a lasciarmi andare, a non sforzarmi di essere il mio meglio possibile? Sono in treno alle 21 di una domenica con l’ultima copia dell’Economist in valigia, quella di cui nel mio mondo si è parlato allo sfinimento (The illiberal left) e che ho letto solo distrattamente nel sunto delle prime pagine: devo tirarla fuori o posso continuare ad ascoltare musica sciacqua cervello?
O forse dovrei infine iniziare l’audiolibro del Duexième Sexe, ché farebbe molto bene al mio francese, nonché  alla mia coscienza femminile e femminista: quanto sarò migliore dopo averlo ascoltato? Posso permettermi di rimandare? E quanto ancora posso rimandare una telefonata che non ho davvero voglia di fare, pur sapendo che l’altra persona la aspetta?  Molto peggio: quante volte posso ignorare il povero cristo che mi chiede un euro mentre io sto per spenderne 30 di cena, verosimilmente per la terza sera di fila, liquidandolo con un cenno della mano come se fosse una mosca di cui liberarsi, una seccatura umana? (E avrei il coraggio di fare quel gesto a tutti quelli che davvero mi sfiniscono con le loro menate, a quelli che vedo anche se non ne ho per nulla voglia, a quelli che conosco per lavoro? e quanto mi rende una persona orrenda già conoscere la risposta?)
Altre domande sparse, giusto per aumentare l’affanno: qual è il giusto compromesso tra la passione per il lavoro e le barriere necessarie a continuare a vivere?  E dove sta il confine tra il difendere le proprie idee con coraggio e non andare fuori dal gruppo? Come si dice a qualcuno che sei stanca dei suoi giochetti senza essere aggressiva, specie se l’altro magari nemmeno sa di farli? Ancora: quante idiozie posso pubblicare su Facebook prima di diventare come quelli che non tollero, sempre a rimirarsi nello specchio e a lucidarsi l’ego con la benevolenza e la considerazione altrui? E questo post, su questo blog che sta lì da 15 anni e su cui scrivo sempre più stancamente, a chi dovrebbe servire esattamente se non al mio di ego?
Potrei continuare – e deprimermi,  ché per quanto abbia camminato davanti c’è un oceano di sabbia, è evidente. Eppure, una delle cose che ho capito in questa eterna traversata è che la svolta arriva quando inizi a fartele, le domande. Il lavoro è tutto lì. Per le risposte c’è sempre il genio dei CCCP: Io sto bene, io sto male, io non so come stare. 

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