La cura della bellezza


Tutte le sere, negli ultimi sei mesi, tornando a casa sono arrivata all’altezza del ponte di Trastevere, ho passato il semaforo, ho rallentato, mi sono voltata a sinistra e ho pensato – a volte mormorato, altre urlato, altre ancora cantato in una specie di estasi euforica – madonna che posto, madonna che città. 
È l’angolo, quello, in cui mentre stai percorrendo una strada come ce ne potrebbero essere mille altre ti scorre di fianco il miracolo geologico dell’Isola Tiberina, e dietro la facciata dell’ospedale costruito in mezzo al Tevere, tra le palme, si incastona la cupola della sinagoga e, spesso, uno spicchio di luna, o la luna intera.
Non ho mai visto, in tutto il mondo, uno scorcio di città così bello. Se la batte forse con Rio, ma d’altronde dal primo giorno in cui ci ho messo piede ho pensato che Roma e Rio avessero molto più in comune di quello che si capisce dalle cronache sciatte e spesso falsate dei due posti. 
Ogni tanto, se non piove, passo il semaforo e mi fermo: accosto e sto a guardare qualche secondo, poi riparto col cuore tutto goffamente alleggerito dalla bellezza. 

Dedichiamolo alla bellezza, allora, questo resoconto di fine anno. Alla bellezza del sentirmi a posto. Dell’aver trovato una dimensione che funziona in una vita nuova, con molte cose ancora da sistemare e definire, ma che mi piace. In cui quando mi perdo in motorino non mi viene una crisi isterica, ma il pensiero che posso guardarmi intorno ancora un po’. In cui ho acquisito abitudini rassicuranti, avvolgenti, casalinghe. In cui posso contare su un piccolo gruppo di amici con cui esplorare argomenti e luoghi. In cui amo il quartiere con in cui vivo, la mia piscina, il mio bar. In cui mi capita di tornare a casa dopo il lavoro e trovarci dentro colleghi che stanno cucinando, e che per cucinare hanno dovuto mettere a posto nel mio casino e si lamentano che non c’è lo scolapasta e ho lasciato una scarpa in ogni stanza, ma che ormai sanno che io sono così.

Alla bellezza della sicurezza, anche. Nell’amore, reciproco, di amici sparsi in giro per l’Italia e per il mondo, con cui ci si ritrova e si è subito comodi, a casa. E in me stessa. Sarebbe bello poter dire di aver finito la traversata del deserto, ma non si finisce mai: soltanto, ci sono dei pezzi che fai a piedi e senz’acqua, e altri a dorso di cammello con la borraccia bella piena. Però se c’è una cosa che ho acquisito quest’anno, e che spero di non perdere alla prossima sventolata di mistral, è una fiducia slegata dalle contingenze. Fa strano dirlo a una certa età, dopo averne passate tante ed esserne sempre uscita abbastanza bene, sopratutto agli occhi degli altri – notoriamente più generosi dei nostri. Ma lo so io, e gli anni di analisi, e lo yoga, e gli esercizi di respirazione, e la piscina alle sette di mattina, e i libri dentro cui sto immersa, quanto ci ho messo a sentirmi così serena; consapevole di quello che mi fa bene, male, o che non merita il mio tempo. 
Ho imparato, quest’anno, il valore del conflitto: non avere paura di dire quello che pensi, andare allo scontro se necessario, partire da lì per trovare un terreno di confronto. La frase sembra rubata ai discorsi sullo sciopero generale e alla necessità di rigenerazione della politica, ma è vera sempre, per tutti: e, proprio come in politica, succede che chi non riesce a stare nel merito sposterà il piano, dirà altro, racconterà balle, proverà a ferirti e magari ci riuscirà anche, ma solo finché sarai tu a concedere quello spazio, dentro e fuori di te. 

C’è una leggerezza meravigliosa, in questa condizione, la stessa che un amico mi spiegò mesi addietro come la caratteristica inviolabile della bellezza di Roma: la sua storia, tutto quello che c’è stato ed è tangibile in luoghi unici ma anche nel carattere dissacrante della città, ti riporta sempre all’essenza, alla semplicità.
Con questa consapevolezza ho passato un’altra estate lunghissima e stupenda, tra Cala di Forno, Arles, Marsiglia e Creta, con la costante del maestrale che – si dice sulla Côte bleue – dura sempre uno, tre o nove giorni, e a un certo punto ti rende pazzo, foss’anche di gioia. Ho allungato l’estate fino al suo limite, l’ho fatta sgocciolare sul litorale e nella campagna romana cercando di estrarne ogni momento; mi son trovata in un sacco a pelo in mezzo a sconosciuti in un ritiro inaspettato e a baciare un rametto di legno come alleato prezioso; ero sull’Isola Maggiore a vedere un concerto struggente, con IoSonoUnCane come un fantasma sul palco, il tramonto alle spalle e i traghettini ad attraversare l’orizzonte e ho passato ore ventose ad arrampicarmi su rocce primordiali con le mie amiche spiaggiate nei dintorni, ognuna immersa nella propria bellezza. Solo un’estate così poteva consentirmi di arrivare a Natale – a dispetto dello stress, del lavoro, delle discussioni in redazione, di Omicron, di un tampone che in questo esatto momento potrebbe costringermi a passare le feste in isolamento  – in una specie di pace che son pronta a consacrare stappando da sola metà delle bottiglie accumulate in queste serate di bevute rimandate. 

È l’incanto della vita: credo di scriverlo tutti gli anni, con intensità crescente. La canzone per celebrarlo, quest’anno, me l’ha mandata Davide, un giorno che gli avevo chiesto qualcosa a metà tra la suite 1 di Bach e River di Brian Eno, e dopo averla sentita di notte a letto l’ho riascoltata talmente tanto, lei e molto Pat, che ho dovuto chiedere a Davide anche come uscirne.
Io ve lo dico, c’è del magico: Spiritual

 

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