On the asian road_ part 3


[Leggi la prima e la seconda parte]

Per arrivare dal Vietnam a Seam Reap, Cambogia, ci sono due modi: fare otto ore di autobus fino a Phnom Penh e di lì altrettante in barca lungo il fiume Sanlop – lo ha fatto mio padre, me ne ha detto meraviglie – oppure salire su un bielica alle sei della mattina e pregare il buon dio. Noi, a corto di tempo, abbiamo pregato.

La panoramica della microscopica sala d’arrivo dell’aeroporto cambogiano esemplifica con rara chiarezza le statistiche diffuse annualmente dagli organismi internazionali, secondo cui la Cambogia si piazza al 153esimo posto su 158 dei Paesi più corrotti al mondo, con una tra le forbici più ampie tra poveri(ssimi) e governanti e un livello di miseria pari a quello del continente africano. Al controllo di immigration, la dogana, si pagano 20 dollari d’ingresso per il visto, più una fototessera; sprovvisti della fototessera, ce la caviamo con 21 dollari, l’uno in più (una certa sommetta per il luogo) incassato rapidamente da uno dei funzionari. Il funzionario in questione è solo uno dei 10 schierati in semicerchio: il nostro uomo-del-fare Brunetta griderebbe vendetta nel vederli passarsi i passaporti di mano in mano, ciascuno esprimendo la propria opinione sull’ammissibilità dello spaesato turista nel Paese. Al decimo tocca il compito di mettere il timbro definitivo, chiamare le persone una a una e riconsegnare il documento vistato. Contro ogni aspettativa – quel “giornalista” indicato sul mio come professione ci fa trattenere il fiato – ci lasciano entrare senza questioni, e senza bisogno di ungere oltre la macchina dei controlli.

Le prime a darci il benvenuto appena guadagnata l’uscita sono le zanzare, una miriade incattivita, pronta a seminare il panico e la malaria; meditiamo di infilarci felpe e scarpe da ginnastica per coprire almeno un po’ del corpo, ma la prospettiva del caldo umido paludoso è quasi peggio di quella della malaria. Il taxi che ci porta in centro è un tuc-tuc, un rickshaw trainato da un motorino 125; mentre sobbalza sulla strada semiasfaltata ci guardiamo intorno increduli: nei pressi solo campi e risaie, nessun’altra strada oltre quella che percorriamo, nessun cartello, niente macchine. Gruppetti di ragazzini con la divisa della scuola si spostano a tre a tre su bici che farebbero impazzire gli amanti del modernariato; ci guardano incuriositi, fanno ciao con la mano. Ricambiamo i saluti un po’ inebititi, storditi dal sonno e dalla polvere che si solleva copiosa al nostro passaggio.

Ci vogliono venticinque minuti abbondanti per arrivare in fondo alla strada sterrata dove si trova l’albergo, o almeno quello che a Saigon ci hanno descritto come tale. Le camere senza finestra sanno di umido e muffa, le lenzuola presentano macchie inequivocabili, il bagno ha lo scarico rotto e una doccetta a muro sopra il water, senza acqua calda; accarezzo l’idea di non lavarmi fino al ritorno in Italia, ma sette giorni sono troppi anche per gli standard igienici al ribasso cui il viaggio on the road ci ha abituato. In compenso, i due fratelli alla reception sono solerti nell’aiutarci a trovare una guida per visitare i templi di Angkor Wat, ottava meraviglia del mondo e catalizzatori del 98% dello scarso turismo cambogiano. Il prezzo, però, cambia più o meno ogni cinque minuti e ci vogliono un paio d’ore di estenuante trattativa per convincerli a scriverlo nero su bianco (proveranno comunque a rialzarlo un altro paio di volte nei giorni successivi); la prima guida che si presenta, in ogni caso, parla solo francese e ci vuole un’altra ora per spiegare loro che ci serve qualcuno che si esprima in un inglese almeno comprensibile. Il ragazzo che arriva alla fine del secondo round di trattative è stato evidentemente buttato giù dal letto non più di dieci minuti prima, ma l’attesa è ripagata da una dozzina di meravigliosi centrifugati di carota offertici dai nostri ospiti, all’esorbitante cifra di due dollari l’uno. Il dubbio che il ritardo non sia casuale è quantomeno lecito.

Il complesso di Angkor Wat, a un quarto d’ora di strada dal centro cittadino, è ritenuto da molti il più maestoso complesso religioso esistente al mondo; il colpo d’occhio, in effetti, lascia senza fiato, anche quelli che come noi faticano a tenere gli occhi aperti a causa di una stanchezza che al quindicesimo giorno di viaggio inizia ad avere connotati patologici. Quasi impossibile descrivere tutti i templi, o ricordarne i nomi: sono dozzine, induisti e buddisti, costruiti a partire dal X secolo dai re-divinità che hanno dominato il Paese fino all’avvento dei khmer rossi, e la visita dura almeno tre giorni, da mane a sera. Il più stupefacente è comunque Angkor Thom, meglio noto per aver ospitato la trasposizione cinematografica delle avventure di Laura Croft: un immenso edificio costruito intorno all’anno mille e poi dimenticato per qualche secolo, in cui alcuni tra i più maestosi alberi della giungla hanno messo radici penetrando tra i muri e sotto le fondamenta, per uno scenario degno di un film con parecchi effetti speciali. I turisti girano al suo interno più attenti a ricostruire le scene di Thomb Raider che a guardare i reperti storici; le guide li assecondano, suggerendo per le fotografie le pose che furono di Angelina Jolie.

Più stupefacente ancora è constatare l’incuria cui sono abbandonati i luoghi, nonostante, con 60 dollari di costo del biglietto d’ingresso, costituiscano probabilmente la principale voce di entrata del Pil cambogiano: ai turisti è concesso camminare e arrampicarsi ovunque; in alcuni casi, addirittura, le guide consigliano bivacchi e appostamenti per gustarsi il tramonto con birre e sigarette. Abbiamo visto un piccoletto americano, sconvolto dalla noia e dal caldo, divertirsi a lanciare sassi che si sbriciolavano sotto la sua forza, sotto gli occhi assenti di genitori e guide; un vero peccato che i sassi in questione fossero resti di statue e decorazioni risalenti a un migliaio di anni fa. Un po’ come se da noi si salisse sul Colosseo e si giocasse a “Mira anche tu la statua dell’imperatore Adriano”.

Il problema, riflettiamo a cena davanti a un Anok – prelibatezza locale: pesce bollito in curry e servito in foglie di banana – è l’ignoranza devastante: se il 40% dei cambogiani è analfabeta, il restante 60% si limita ad apprendere a memoria le nozioni minime per ricevere dai turisti qualche dollaro in cambio di poche frasi snocciolate sui templi, abbondantemente riportate anche dalla lonely planet. D’altra parte, come spiega la guida, nonostante il (mal)governo rosso, la scuola è tutt’altro che gratuita, e il numero dei cambogiani che si sono spinti oltreconfine per allargare i propri orizzonti, anche solo in Vietnam, è prossimo allo zero. Quando proviamo a chiedere alla nostra accompagnatrice un parallelo tra Angkor Wat e i templi messicani ci guarda senza capire: altamente probabile che non abbia mai sentito parlare del Messico.

[segue, forse]

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    #1 by momo on January 27, 2010 - 07:43

    LARA Croft, si chiama LARA Croft!!!

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    #2 by nicolizzo on January 27, 2010 - 09:09

    e Tomb Raider a essere puntigliosi

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    #3 by Gea on January 27, 2010 - 09:19

    Bravi bravi, si vede che la jolie vi ha preso bene 😉

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