Archive for January, 2011

fuoriclasse

Ma se scrivo per altri vent’anni, divento brava così?
(nel dubbio, ho rinnovato l’abbonamento a Gq)

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Italians do it better

Eravamo a Campiglio. Un fine settimana perfetto: sole splendente, piste quasi deserte, neve ben battuta, forme fisica oltre le aspettative. E una bottiglia di champagne francese per viziarci un po’.
Poi mentre Nic si lavava e io finivo di scolare le bollicine ho avuto la malaugurata idea di accendere la televisione (maledetta incapacità di staccare mai del tutto). E di fronte mi sono trovata un paesano innamorato del lambrusco e dello zampone (Sono qui a Castelfranco, diziamolo ben agli italiani che il miglior cotechino lo fazziamo qua) e un altro che per aggiungere pathos al proprio eloquio si esprime in brianzolo (Eh in milanese li chiamiamo ciociua uraduri, te capì?), che discettavano di cattolicesimo e politica. Ovviamente in collegamento da una qualche cantina dove si stava affettando il salame, che vorrai mai mollare le abitudini della domenica per andare a Roma in studio e sprecare il fine settimana.
E con la bocca ancora impastata da lambrusco, zampone, ossobuco e riso giallo, con la cadenza al pari di una nenia, si vantavano dell’autorità loro conferita dallo Stato: uno sottosegretario alla famiglia – la propria, di certo – l’altro viceministro di non ricordo che, grazie a dio. E non vale la pena nemmeno di riferire cosa dicessero: perché il mezzo è il messaggio, e il loro non essere in grado nemmeno di esprimersi in italiano la dice lunga sulla qualità del pensiero.
E ho dovuto finire tutto lo champagne da sola, per dimenticarmeli. Poi ho avuto mal di testa il resto del week end.

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mal comune mezzo dramma

Per non farci mancare niente, vi segnalo che la disoccupazione giovanile (19-25 anni) in Tunisia – uno dei fattori scatenanti la rivolta – ha raggiunto il 25%.
In Italia è al 25,4%.
E buona notte a tutti.

Update: la disoccupazione giovanile in Italia è arrivata al 29%. Il dato più alto dal 2004.

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Dicevano, pensi, di essere sfruttati

La scena degli operai di Mirafiori che ballano e festeggiano e alzano i pugni a tempo di musica demodé mentre aspettano i risultati del referendum mi stringe il cuore. Senza retorica o falsa empatia. Semplicemente, mi fa male al petto.
Per buona parte della notte, i no all’accordo hanno prevalso: e loro si davano pacche sulle spalle, sorridevano e sostenevano a vicenda, illudendosi, per qualche ora, di aver fatto la rivoluzione sul serio. Di aver costretto il capo quantomeno a capire che non li può trattare come cose: che potrà anche fotterli, ma loro lo sanno, non sono cretini. E sono stati disposti a giocarsi la fabbrica: cioè il lavoro, la vita, la dignità.
Poi gli impiegati hanno dato il loro contributo alla questione, e hanno scelto il sì: forse perché l’accordo a loro intacca poco, mentre la chiusura della fabbrica sì.
Ognuno ha fatto per sé, e Marchionne ha fatto per tutti. Io l’ho difeso, molto tempo fa. Ne sono amaramente pentita.

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Dirsi la verità

Il nostro direttore, forte di contatti credibili in quel di Bruxelles, ha scritto qualcosa di finalmento serio sulla crisi. Per l’Italia una maximanovra da 135 miliardi: come quella lacrime e sangue di Amato del ’92.
Prepariamoci.

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Sarajevo (subtitle: I want to tear down the walls that hold me inside)

Siamo entrati a Sarajevo di notte, ascoltando questa. (The Edge con la pedaliera in confronto è un dilettante).
E con il buio, la neve, i vialoni larghi, i palazzoni sforellati e la gente vestita troppo poco per il freddo che fa, ho pensato di essere nel posto giusto al momento giusto.
In realtà la città prêt-à-porter è un’altra, e il contrasto mi ha reso la vita difficile. Il quartiere turco, intorno a cui si snoda la Sarajevo delle guide, è bella e ben sistemata: moschee, musei, bazar, negozietti, localini, una piazzetta raccolta. Troppo per me: negli ultimi anni ho sviluppato una fascinazione per i posti ruvidi e sconquassati, dove i conti con la storia sono ancora aperti.
Ho avuto la sensazione che tutto sia pronto per il turismo di massa, per infiocchettare i giorni dell’assedio nel menù servito ai veneti che arrivano a fiotti, complice il marco bosniaco che impallidisce di fronte all’euro.
Sono voluta scappare dalla città bella, alla ricerca del resto.
Il resto c’è. Ed è una distesa di cimiteri interrotta qui e là da minareti, case e chiese. Dovunque ci sia uno spazio libero, sulle colline arrampicate intorno alla conca così come nei parchi cittadini, i bosniaci hanno sepolto i propri morti: decine di migliaia. Lapidi bianche, con nomi incomprensibili, sobrie e dignitose, affondate nella neve alta mezzo metro: uno spettacolo che rompe il fiato.
Intorno, l’atmosfera è quella dell’alba atomica: crudele e stupenda. Saliti in cima ai palazzoni di Nova Sarajevo, Nicola e io non siamo riusciti a vedere cosa ci fosse sotto: tutto avvolto dal fumo delle ciminiere con cui gli europei stanno succhiando alla gente del posto ogni minerale che la terra abbia prodotto.
Il 1 gennaio, mentre nel gelo  di un campo sperduto guardavo un video sui giorni dell’assedio, ho pensato a che figata deve essere stato fare il corrispondente durante l’ultima guerra dell’epoca moderna. L’ultima senza attacchi aerei, con la Nato tristemente immobile, i cecchini sui palazzi e le donne che correvano per attraversare le piazze, i bambini abbarbicati addosso e qualche patata infilata nelle tasche. Nella mia testa, ho proprio usato proprio la parola figata. E mi sono spaventata: come quando capisci che per il tuo istinto vanesio la guerra diventa un’immagine da raccontare.

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