Archive for category Dispacci

Dispacci, Marsiglia #5

Magari è che non ci sono ancora capitata – ma non ci sono mai capitata in tutte le volte che sono stata qui – ma mi sono accorta di colpo che a Marsiglia non ci sono cinesi.
Non c’è una Chinatown ma non si ci sono neppure bar, centri estetici, centri massaggi, sarti, magazzini di cianfrusaglie, parrucchieri; persino i ristoranti sono complicati da trovare (anche i giapponesi, in realtà, e le due cose ovviamente sono collegate, o mica penserete che i giapponesi lo siano sul serio). 
Qui ci sono quelli arrivati dalle Comore, gli algerini, i guineani, i nigeriani, i senegalesi, ovviamente migliaia di italiani,  ma di cinesi neanche l’ombra. Ed è la  prima volta, negli ultimi 20 anni, che vado in un posto e penso come i cinesi non se lo stiano comprando tutto.  

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Dispacci, Marsiglia #4

Immaginatevi me, con uno zaino carico d’acqua appoggiato su uno shangai di costole, che a fine giornata provo a ritrovare il sentiero che dal calanco mi deve riportare, un’ora e passa dopo, al parcheggio.
Immaginate una donna in fiamme, senza uomo solo (sarebbero andato bene anche un uomo in coppia, comunque). Immaginatela guardare con sgomento il reticolato di segni e chiedersi, a mezza voce, se quella mancanza di arbusti indichi un percorso, o solo una preferenza della natura, e quale delle molte preferenze di fronte agli occhi sia quella con maggiori chance di essere un sentiero. Immaginatela – ascoltatela, anzi – dirsi che non è possibile, a 40 anni, avendo girato il mondo, non saper riconoscere un sentiero, e poi interrogarsi su quale ingenerosa ripartizione genetica l’ha privata fino a quel punto di senso dell’orientamento: c’è qualcuno cui poter chiedere i danni? Si può fare un forfettone unico con il conto dell’analista?
Immaginate i minuti passare, e lei semi carbonizzata decidersi a imboccare un sentiero, sospettando che non sia abbastanza verticale rispetto alla discesa a picco fatta ore prima. Immaginatela camminare quaranta minuti e ritrovarsi nei pressi di un’altra insenatura, ed essere stanca davvero a quel punto, e anche un po’ preoccupata: quanta strada ci sarà da fare ora? E quale strada soprattutto? E perché tutta quella gente che stava scendendo con lei, di mattina, ondeggiando e gorgheggiando come un gioioso unico corpo, non è lì adesso?
Immaginatela sedersi su una roccia rovente, e attendere. E poi osservate due bambini di otto anni, forse dieci, palesarsi infine risalendo a balzi dalla macchia: in ciabatte, con la maglia della Juve.
Immaginate il giro degli sguardi – non è che mi prenderanno in giro spedendomi dal lato opposto? Non è che ci si accozza e rallenta? – e il più clemente dei due dire: Señora, problema?, in spagnolo, e poi fare cenno di seguirli.

Immaginate come adoro Marsiglia, se ci riuscite.

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Dispacci, Marsiglia #3

Girando per Marsiglia in questi giorni ho capito due cose che, pur avendo visto parecchie decine di città in giro per il mondo, non ero mai riuscita a concettualizzare prima.
La prima è che ci sono in ogni città sette od otto sotto-città, e ovviamente l’esperienza del posto è profondamente influenzata da quella in cui si vive: c’è il rischio concreto di non scoprirle, di rimanere confinati in uno o molti ghetti, senza un colpo di fortuna e moltissime chiacchiere con la gente. 
La seconda è che ogni città nel suo complesso deve combattere una battaglia contro il denaro, dunque contro la tendenza a uniformare gli spazi e l’offerta, a diventare uguale a decine di altre: gradevole, accogliente, rassicurante. Ieri camminavo per il Vieux Port e ho avuto la sensazione di essere, nell’ordine: a Zara (i colori, la pavimentazione), a Beirut (la corniche, i palazzoni) e Lisbona (il calore, la pigrizia). Ci sono nuance diverse, ça va sans dire, ma non così tante: dai negozi alla gestione degli spazi, man mano che le città si ripuliscono alcuni quartieri diventano spaventosamente simili, specie a latitudini analoghe.
Meno scontato è che non tocca solo a quei quartieri manifestamente gentrificati – quelli che fronteggiano il mare, scorrono tra gli edifici principali, sono il vecchio centro storico – ma anche a quelli che sono ancora generalmente identificati come “autentici”. Qui, per dire, il Panier, è ancora parzialmente sgarrupato, con pezzi diroccati e lamiere buttate qui e là dai residenti che non vogliono intrusioni di turisti. Ma le cose nuove che vengono aperte (il famigerato “riscatto” dei titoli di giornale) appartengono tutte a un medesimo canone di “graziosità”: insegne di legno e ferro battuto, concept store di sartoria o artigianato, baretti minuscoli con stoviglie della nonna e scatolette di sardine come portacenere. Come se persino la diversità ormai fosse uniformata. Come se per sfuggire dalla conformità non restasse che il disordine,
lo scoordinato, i colori forti. 

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Dispacci, Marsiglia #2

Se pensate che Zazie dans le metrò sia una storia, sentite quella dei tipi da cui ho affittato casa, qui a Marsiglia.
Lui è Claude, ha circa 50 anni, una laurea in ingegneria, una collezione di medaglie come maratoneta appese disordinatamente alla porta. È nato a Marsiglia ma a 23 anni, per scappare alla leva obbligatoria, se ne andò in Turchia, un posto in cui il governo non sarebbe andato a riprenderselo.
Lei è Zezè, un’artista: dipinge e scolpisce. Come molte turche di buona famiglia, è stata educata alla scuola francese, ritenuta la più sofisticata di Ankara. Siccome aveva un talento, i suoi la spedirono anche per un bel pezzo a Firenze e lei ne approfittò per gironzolare l’Europa (la Turchia ante Erdogan). A un certo punto tornò indietro: aveva voglia di casa. Lì l’ha trovata Claude: l’ha corteggiata, l’ha conquistata e l’ha convinta, dopo un tempo ragionevole, ad andare con lui a Marsiglia.
Adesso hanno una casa su Cours Julien con una dépendance, due figlie ventenni che ogni mattina preparano il tè prima di farsi una partitina a scacchi – “Beviamo come i turchi”, ha detto Daphne quando ho riso della terza teiera che metteva sul fornello – un atélier lei, un lavoro di prestigio lui, un impegno congiunto per aiutare i richiedenti asilo.
Il giorno che sono entrata in casa ce n’erano una manciata intorno al tavolo della cucina e loro li stavano aiutando a compilare delle carte: non capivo chi fossero, e ho dato la mano a tutti e detto a tutti il mio nome, e questi mi guardavano sudata e carica di zaini e valigie e tappetini da yoga come fossi una matta.
Poi Claude e Zezé  mi hanno spiegato tutto. Un secondo dopo ero già innamorata di loro.  

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Dispacci, Marsiglia #1

Sveglia alle 5.40, treno alle 7, oggetti dimenticati pochi, almeno di cui mi sia già accorta. 
Milano, Genova, Ventimiglia, Mentone, Montecarlo, Nizza, Marsiglia; dodici ore casa-casa: c’è il Covid, il diretto non circola, il Thello fa un’ora quasi di ritardo, tutta nel tratto italiano. 
Litigando con la mascherina, congelata dall’aria condizionata (ma non era proibita per via del virus?), con il naso appicciato al vetro zozzo lascio che il paesaggio mi imbocchi una madelaine dopo l’altra: è una strada che conosco questa, c’è dentro un sacco della mia storia.
Per molti anni l’ho fatta via mare; nell’ultimo decennio via terra. Un’estate coi miei abbiamo fatto una regata che partiva dal sud della Francia e arrivava a Tunisi, non ricordo se è lo stesso anno in cui siamo stati parecchio tempo a Porquerolles, uno dei posti più belli che abbia mai visto, o quello della Rue de Jasmin. Fatto sta che eravamo sempre nei pressi di Nizza, ma a Nizza non ci fermavamo mai. Andavamo a Mentone appositamente a prendere le marmellate – speciali, buonissime – ma Nizza niente: è brutta, cementificata, senza alcunché da vedere, dicevano i miei. Mio fratello però aveva sentito che a Nizza si trovasse il parco acquatico più grande d’Europa – chissà poi da chi, Internet non esisteva ancora, non so chi fosse la sua fonte – e cercavamo di convincerli a lasciarci andare almeno una volta. 
Figuriamoci! Ce ne andiamo al museo di Picasso ad Antibes,  e poi stasera si mangia bouillabaisse, tagliava corto mio padre, più o meno tutti gli anni. Magari aveva ragione – anche se i pedagoghi oggi direbbero che non rispettava il nostro volere e che non c’era abbastanza ascolto – ma è la sufficienza con cui lo diceva che mi è rimasta dentro.
Ci sono passata parecchie volte a Nizza, da grande, però non mi è mai venuto in mente di andare a vedere quel parco acquatico. Finché mel 2012, di ritorno da Arles, ci fermammo con Edo, Bengy e Naima a mangiare coquillage sulla spiaggia, e fu l’inizio del mio armistizio con la città. E con la Costa Azzurra.
La costa è più bella di come l’avessi interiorizzata da ragazzina durante vacanze forzate in barca, è più bella anche della riviera di Ponente, è più bella anche se tutto il tratto tra Cannes e Montecarlo è deturpato da palazzoni di cemento che non potevano essere belli nemmeno quando li hanno costruiti, negli anni 70. Una sera con un amico sono partita dalla Liguria per andare a Montecarlo a cena: ci teneva lui, c’era la sua madrina di battesimo. Montecarlo era un altro di quei posti che con i miei avevamo sempre ignorato, forse con sprezzo; quando infine Diego e io ci siamo infilati per quelle stradine strette piene di caseggiati bianchi orrendi ho capito perché. 
Eppure in Costa Azzurra sono belli il mare, i triangoli di spiaggia incastonati tra un promontorio e l’altro, gli scogli che affiorano di sorpresa. Sono belle le montagne, sopratutto, che in Liguria sono brulle e puntellate di case, e qui invece diventano maestose falesie di roccia che incorniciano il paesaggio senza opprimerlo. È il mistero di questo pezzo di Francia: ci sono colate di cemento ovunque, eppure la natura resta preponderante.
Me ne sono accorta con chiarezza quando ho iniziato ad andare ad Arles in macchina tutti gli anni: passavi il confine ed era subito un altro mondo, pur avendo fatto pochi chilometri. A me gli altri mondi fanno sempre bene: all’animo, alla creatività, alla mia predisposizione verso gli altri. Fanno così bene che mi piace persino il font con cui sono scritti i cartelli delle loro stazioni ferroviarie: minuscolo, più leggero del nostro, meno rozzo. Francese, raffinato. Anche se a due passi c’è la gendarmerie in assetto antisommossa che porta via gli ambulanti. 
A Marsiglia è diverso però: il font è sottile ma è subito chiaro che non c’è nulla di delicato qui. Almeno non nel senso tradizionale del termine. 

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Dispacci, Seattle #4

In giro per la West Coast è tutto un succedersi di cartelli in difesa delle minoranze, dei migranti, della comunità Lgbt. Non menzionano mai Trump nello specifico – ed è  giusto, perché non è dall’uomo che bisogna difendersi bensì da una cultura  profondamente radicata che lui ha contribuito a rivalutare  – ma si riferiscono a tutto quello che è successo negli ultimi due anni, da I believe that Black Lives Matter a Parents and their children shouldn’t be divided by force.

A Seattle, che è una città vivace e non conformista – nonostante Amazon, Microsoft, Boing e Starbuck, la Big America Corporatation che ha sede qui – molti bar e ristoranti hanno affisso adesivi sui vetri con cui rassicurano le persone gay, transgender, rifugiate: Here you are safe, qui siete al sicuro.  

Mi è sembrata una cosa fortissima: siete al sicuro, vi stiamo offrendo protezione, da chi non vorrebbe che foste quel che siete, da chi non vi vuole in giro, da chi potrebbe aggredirvi o farvi male in altra maniera.
Evidentemente specificarlo serve, evidentemente quella cultura di cui parlavamo sopra, l’intolleranza, la rabbia sociale, l’ignoranza, la prevaricazione, l’egoismo e tutto quello che sta rinsaldando il mostro nero dei nostri anni, esiste eccome. Non è solo marketing: potete fidarvi o meno, ma lo so, l’ho sentito, l’ho visto.

Ecco, allora mi chiedo: quand’è che importeremo questa cosa in Italia, dove il nero in giro è lo stesso, se non peggio? (Qui almeno formalmente l’industria più potente al mondo, Big tech, è schierata a favore delle minoranze, talvolta in aperto contrasto con l’Amministrazione su specifiche scelte come il Travel Ban, il divieto di immigrazione per certi cittadini e per i loro congiunti; da noi non mi pare di aver sentito una sola società o famiglia che conta, dalla Ferrari a Della Valle passando per Cucinelli che normalmente è il santo de noantri, dire qualcosa). 

Ce ne sarebbe molto, molto bisogno, e non solo nella solita Milano, che essendo la capitale nazionale del marketing ha capito subito come posizionarsi  – e meno male, non fraintendetemi.
Ci sarebbe bisogno anche che, una volta successo, i media (di destra, soprattutto, ma anche alcuni dei molti che si definiscono indipendenti e menano colpi al cerchio e alla botte con la stessa felicità con cui scrivono tweet) non lanciassero la grancassa canzonatoria delle magliette rosse o dei radical chic o delle bandiere della pace che furono.  

Serve rispetto, anche quello. 

 

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Seattle, Dispacci #3

La sede di Amazon a Seattle è stupenda: legno e cafeteria e tre sfere giganti che contengono una foresta – una foresta vera, anzi più foreste: specie tropicali ma anche sequoie, felci e piante carnivore asiatiche; poi naturalmente anche tavolini e Wi-Fi in abbondanza, ché è Amazon, mica l’Amazzonia  – e la sensazione di essere una star solo a metterci piede. Per non dire dell’ebbrezza di fronte al negozio di Amazon Go, entrato così solidamente nell’immaginario collettivo come il futuro, a disposizione solo per pochi istanti e pochi prescelti, che non appena davanti alla porta mi son affrettata a scaricare la App per precipitarmi a comprare qualcosa.

Dicevamo, comunque, che la sede di Amazon è pazzescamente figa, e sono sicura che siano molti quelli che entrando la mattina (o la notte, è il classico building 24 hours) pensino veramente quel Pretty cool, Pretty Amazing duh che raccontano a te mentre ti descrivono la loro routine di Amazoner. Tanto più cool se è vero che gli orari di lavoro “sono il tipico 8-5”, come dice quello della comunicazione parlandomi  dei propri, anche se va detto che se lavori nelle Pr per Amazon e alle 17 hai finito forse sei una discreta pippa, perché con le grane da smazzare a ciclo continuo di un posto così quando ritengono che alle cinque poui andartene, ecco,  probabilmente il tuo contributo non è essenziale, almeno non per le grane vere.

Ma, insomma, la sede di Amazon è stupenda davvero. E anche il magazzino di stoccaggio tutto robotizzato, 30 km fuori dal centro, è pazzesco: i robot fanno qualsiasi cosa intelligente e la comunicazione spiega sempre che sanno tutto perché “Il sistema”, non meglio definito se non con un misto di machine learning e software, fornisce loro ogni indicazione. Poi magari ne scriverò meglio, ma l’essenza è che il robot è veramente una potenza: in  ogni fase sa quali prodotti son dentro a una scatola chiusa e quali scatole non son state chiuse bene soltanto guardandole, e quali prodotti mettere vicini perché fra due giorni con la ripresa delle scuole venderanno di più o magari quali spedire a 200 chilometri perché in quella città li chiedono di più, eccetera. I robot sanno tutto, danno indicazioni precise, segnalano gli errori, elaborano schemi e indicano scelte. A chi? Agli umani, che come in un gioco di specchi di un film distopico fanno il lavoro senza cervello che facevano prima le macchine: aprono, scartano, sollevano, infilano nei cassetti. 

È un rovesciamento totale dello schema tradizionale dell’interazione uomo-robot: gli uomini eseguono, gli altri decidono. Ma è tutto preciso, ben fatto, efficacissimo, perfetto per il cliente cui si offre un servizio eccezionale. 

E insomma, pensavo oggi, guardando le foreste nelle sfere prima e poi gli umani che eseguono le indicazioni dei robot, che Amazon è la sintesi perfetta di dove è andato il mondo e sempre più andrà con la specializzazione delle competenze e l’allargarsi  del divario tra la rendita da lavoro e da capitale (leggi: Piketty) e l’immaterialità degli strumenti con cui si soddisfano sempre più bisogni: chi ce l’ha fatta sta nel mondo scintillante, bellissimo, biodiverso, protetto e connesso; chi non ce l’ha fatta esegue compiti elementari sotto la supervisione di macchine e computer, con le gambe affaticate per i troppi hamburger a pochi dollari e una sensazione di lontananza fisica e separazione tipica del terzo mondo. 
In mezzo, un esercito che potrebbe farcela ma anche non essere all’altezza, ancora in bilico, che si sdilinquisce sulle meraviglie del primo mondo con la speranza che  aiuti a entrare stabilimente nel circolo, sospendendo ogni altro pensiero o desiderio.

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Dispacci, Seattle #2

Seattle, Crocodile bar, una sera come tante. C’è una band giovane che suona, un po’ sfigatina; sulle tivù giganti sopra al bancone passa l’Unplagged dei Nirvana (The man who sold the world) e qualcuno abbassa il volume della band per far sentire Cobain. 

Giusto così, o forse no. Però chi se ne frega del giusto quando c’e Cobain e i suoi che lo omaggiano. 

 

 

 

 

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California, Dispacci #1

Dimentichiamoci per un secondo Mueller e il Russiagate, e diciamolo.
La vera resistenza quaggiù la fa il calcolo delle calorie sotto ai menù, quei numerini magici che oggi mi hanno salvato dall’ingollare 720 calorie di un’insalata di pollo (due volte una carbonara, nemmeno Einstein saprebbe spiegare come ci riescano). Non c’erano otto anni fa e non ci saranno più fra qualche anno, capiamoci, specie se alla presidenza resta uno che beve 12 CocaCola (zero, vabbè) al giorno.

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Dispacci, India – Madurai #11

C’è gente in giro che chiede se è vera la leggenda per cui il couchsurfing serva a trovare qualcuno con cui andare a letto; esistono persino articoli di giornale un po’ sciocchi che ne parlano. 

È evidente che chi li ha scritti non ha mai fatto couchsurfing: altrimenti saprebbe che la prima cosa che si fa in un altro continente, dopo aver incontrato la propria amica-couch, è chiedere il contatto del miglior medico ayurvedico in città, per trovarsi qualche ora dopo seduti in attesa del proprio turno per un massaggio terapeutico in uno studio che non ha mai visto un interior design e nemmeno l’Ikea (forse neppure straccio e spazzolone, ma il caos polveroso e marcescente delle strade indiane finisce col rendere sfumati i contorni delle cose: è difficile dire quando un posto è semplicemente realmente sporco o quando è sommariamente pulito ma segnato dal tempo, dal numero di persone che ci sono passate, dalle cianfrusaglie che lo adornano, dalle divise lise e dai piedi consumati di chi si trova al suo interno).

 Il messaggio ayurvedico, dicono quelli che se ne intendono, ai quali non appartengo, è una specie di cura ominicomprensiva, che se praticata con la giusta frequenza può rimettere in sesto quasi tutto. Non provarlo sarebbe da fessi.

Non so, e nessuno mi ha detto, se in altri posti del mondo o anche solo dell’India le massaggiatrici ti facciano stendere su qualcosa di più confortevole del siluro convesso di legno massiccio sul quale invece hanno spiaggiato me, mentre mi ricoprono di olio da un colino (lo stesso che in Italia si usa per le ceretta: per un secondo ho temuto stessero per spiumarmi viva) a partire dai capelli fino alla punta dell’alluce.

Ma dopo poco ho la consistenza di una foca, e quando iniziano a farmi girare da un lato all’altro del corpo scivolo via dal siluro convesso, picchiando in tutti i lati e scatenando nelle due risate che si fanno progressivamente più intense e non nascondibili. Per completare le confessioni dell’occidentale vorrei-essere-migliore-di-come-sono, una delle due ragazzine è devastata dal raffreddore e mi strofina vigorosamente l’olio con le stesse mani con cui ogni quaranta secondi si tocca sotto al naso per pulirsi il moccolo, e son costretta a distogliere lo sguardo dopo aver chiesto vanamente tre o quattro volte You sick?

Quando ormai mi si potrebbe strizzare ottenendone brandelli di pelle e lardo di balena, le massaggiatrici mi sollevano in posizione eretta sul siluro convesso, a mo’ di soprammobile basculante col fondo rotondo pieno di sabbia, e annunciano che è il momento del bagno di vapore. Mi accingo dunque a camminare verso una stanzetta a mo’ di bagno turco, magari spartana ma rilassante. Invece mi infilano a forza dentro una scatola di legno, con un buco per far uscire la testa. La situazione è simile a quella del gioco di prestigio in cui il mago ti blinda dentro una scatola e sega a metà: solo che nel mio caso il parallelepipedo di legno è riscaldato da non so che, dentro la temperatura è di sessanta gradi almeno, ed essendo io bassa a stento riesco a far emergere tutto il collo dal cubo infernale. Quando la signorina con il raffreddore chiude l’ultima asse della cassa mi prende qualcosa di simile a un attacco di panico, e medito di dare un calcio alla scatola e uscire: loro mi guardano come fossi un animale strano, chiedono conferma del mio stato in lingua Tamil, rispondo in italiano: se parlassi inglese il risultato sarebbe uguale. 

A gesti, una delle due mi spiega che devo stare dentro circa 10 minuti, e fa per abbandonare la stanza: la fermo con un suono gutturale, ché nemmeno quando a sette anni credevo nelle fiamme dell’inferno, con tutta la potenza immaginifica dell’infanzia, riuscivo a concepire una situazione peggiore. 

Dopo tre minuti, sto sudando ruscelli in piena: li sento staccarsi da un determinato punto del corpo, come se fosse la montagna, e percorrere la pelle a mo’ di valle sotto al Gran Canyon, per poi gocciolarmi sui piedi (la scatola sarà larga 60 per 70 per 100 centimetri, o giù di lì), già fradici. Al quinto minuto, i ruscelli iniziano a staccarsi anche dalla fronte, mi finiscono sugli occhi, appannano la vista già provata dal vapore: vorrei pulirmi la faccia ma ho le braccia incastrate nella scatola infernale, inizio a soffiare manifestando un disagio che la massaggiatrice in nessun modo è disposta ad alleviare. Ancora cinque minuti, mi fa capire, e sta diventando una prova di carattere, più che di forza. Al settimo minuto, i ruscelli sono diventati fiumi, con la portata del Tamigi: faccio in tempo a pensare che sto per morire disidratata, o che almeno sverrò a breve, prima di supplicare la ragazza col raffreddore di tirarmi fuori, Stop!, stop!!, stop!!!

Una volta liberata, ho il diritto di fare la doccia per riprendermi: mi indicano una stanza piena di secchi d’acqua, che mi verso addosso generosamente. Nel frattempo, la mia biancheria è fradicia e inservibile: devono essersi dimenticati di darmi quella di carta. O forse non esiste. 

Mi invitano a rivestirmi, come se tutto fosse a posto: ho la pressione così bassa che impiego circa 10 minuti, mentre uno specchio arrugginito e appannato mi rimanda il volto di una tipa sconvolta, i cui capelli sarebbero biondi se non fossero arruffati in un unico dread, con borse sotto agli occhi che toccano il mento.

Tutto bene il massaggio?, mi chiederà con entusiasmo la couchsurfer ore dopo. 

Oh yeah!

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