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Non ci resta che Insorgiamo

Qualcuno si è lamentato che nel 2023 non ho fatto il consueto post di fine anno (Marco, grazie: è incredibile che ti ricordi ancora di leggere questo blog una volta all’anno, cioè più di quanto effettivamente ci scriva), e in effetti è vero: non avevo alcuna riflessione buona da fare. Per gli altri, o per me stessa. Il 2023, ho dovuto constatare con una certa amarezza, è stato per me un anno veramente horribilis, per ragioni personali e non. Per ragioni, direi, che mi legano al discorso pubblico in cui ho scelto di stare, in cui sento il dovere di stare; che riguardano il mondo in cui viviamo, di cui non basta più dire stancamente “è impazzito”, perché, benché condivida tutta la stanchezza, è invece un mondo lucidissimo e nettissimo nelle scelte che fa. Il termine mondo è certo largamente impreciso: parlo di Stati, di istituzioni politiche, di chi fa le politiche, di chi le commenta, di chi ne è governato. Parlo di soggetti terzi, ma anche di amici, di famiglie, di conoscenti. Parlo della difficoltà a non farsi schiacciare dalla propaganda, parlo della difficoltà a mantenere un’autonomia di giudizio, parlo della dinamica della formazione delle opinioni, in questo mondo in cui la scelta alla base è quasi sempre stare coi forti e non coi deboli; opinioni viziate, poco informate, basate su luoghi comuni e accettazione di immutabilità,  “è così”, “non ci si può fare niente”, “non si può dire”. Opinioni che diventano il terreno su cui si prendono e impongono decisioni, sulla cui base poi si giudicano e sanzionano gli inadempienti, in un circolo vizioso che sembra non lasciare scampo, e a me personalmente fa male nel profondo. Perché non è il mondo in cui voglio vivere. 

E quindi, diciamolo subito sempre per il solitario, affezionato lettore, la canzone del 2023 era quasi una scelta obbligata: I fought the Law. D’altronde, non c’è niente che abbia ascoltato quanto i Clash l’anno scorso, invidiando in maniera struggente i tempi in cui potevi entrare in un posto e sentirli suonare, e ritrovarti in quella comunità, in quella lotta che aveva visto in anticipo l’orrore che stavamo costruendo, e che i ruggenti anni Novanta avrebbero consacrato come nuova cornice del sistema. Come sistema stesso.
Quel senso di comunità l’ho ritrovato, pochi giorni fa, nel Capodanno che abbiamo celebrato alla ex GKN, fuori da una fabbrica occupata da due anni e mezzo, trasformata dalla tenacia, dalla forza e dalla consapevolezza del Collettivo nel migliore laboratorio per costruire qualcosa di diverso, sulla base di esperienze di partecipazione e di condivisione, di lotta giusta, dura, onesta contro chi pensa che sia normale licenziarti via whatsapp in piena estate, e poi sparire nelle nebbie di un board meeting, senza mai rendere conto. Di chi non ha capito che la violenza è anche quella che viene esercitata contro le vite dei lavoratori che di colpo sono privati di salario, dignità, libertà. Mi pare un punto centrale: non si fa che sentire critiche alla violenza sui social network (esiste, confermo), o nei cortei quando viene rotta una vetrina (se ne parla meno quando la polizia carica gli studenti, i docenti, i manifestanti in genere); ma la violenza esercitata sulle persone, sui lavoratori, sui migranti, sugli indigenti a cui vengono tolti tutti gli aiuti, la riconosciamo o no? 

La notte di Capodanno, alla ex GKN, Dario Salvetti ha fatto il discorso politico più emozionante che mi sia capitato di ascoltare in un sacco di tempo: leggetevelo, è qui. Ci vogliono cinque minuti, e bastano a capire cosa dovrebbe essere e dire la politica. Invece l’altra sera non c’era nessuno volto noto di opposizione e/o maggioranza a testimoniare vicinanza agli operai: eravamo 3 mila persone, tra cui qualche giornalista, qualche intellettuale noto, docenti universitari, i loro studenti, persone arrivate dall’estero, ma non i decision maker che, da tempo, avrebbero potuto cambiare il corso delle cose. 
Le cose cambieranno lo stesso, forse, spero, perché quella lotta ha contagiato una parte del Paese e ha segnato una strada. Ma la sfida è che diventi un percorso comune, che le istanze di cui si fa portavoce si allarghino e diventino patrimonio condiviso: possibile che tutti blaterino di valori e poi si consenta a qualcuno di licenziare via whatsapp o di tagliere la sanità, cioè in parole più concrete si decida scientemente di privare le persone di cure spesso essenziali? Si decida, cioè, di aggravare la loro condizione? E perché, se non per favorire i privati, se non qualcuno in specifico certamente un mondo, un sistema, una cornice di rapporti di forza?

Ecco, lo vedete perché non volevo scrivere? Adesso siete amareggiati anche voi. E, se così fosse, sarebbe giusto. Credo che l’unico modo per resistere sia convogliare questa amarezza nella consapevolezza di quello che non è accettabile e che va respinto, anche se a volte può significare non essere compresi, essere lasciati soli o scegliere volontariamente di allontanarsi. 
Il motto del 2024, che i lavoratori GKN hanno trasformato da tempo in una chiamata popolare, è INSORGIAMO. Non è mai stato così importante, da quando io ricordi. Almeno non per me. 

 

 

(1 gennaio 2024, pochi minuti dopo la mezzanotte, Campi Bisenzio)

P.S. Alcune di queste cose le ho scritte, articolandole diversamente ed entrando più nel merito, in questo thread. Prima o poi o farò diventare anche un post, ma se volete leggerlo, intanto…

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Le newsletter, nel 2020

Comunque una volta andavano di moda i blog e tutti ne avevano uno; ora invece tocca alle newsletter.
La differenza è che sui blog, come questo, ci veniva e ci viene chi è interessato o magari chi segue un link pubblicato qua e là; mentre le newsletter invadono la posta elettronica con la tenacia delle formiche nelle case di campagna, stracolme di riflessioni e consigli che nessuno ha sollecitato e men che meno richiesto, con le loro discettazioni sedicenti sociologiche più correttamente definibili cazzate (climax raggiunto da uno che l’altro giorno spiegava quali saranno i dieci mestieri del futuro ed erano tutte idiozie che finivano in -ologo, con una menzione speciale per l’esperienzologo), e sono per lo più tentativi patetici e per me quasi sempre imbarazzanti di crearsi un nome, un pubblico o addirittura un brand, come direbbero quelli che nel futuro potrebbero diventare esperienzologi. 

Ora io non ce l’ho con voi, ma non ho richiesto le vostre newsletter e se per caso l’ho fatto è stato per educazione, o perché ho sbagliato nel dare il consenso. E anche se siete amici, credo che dovreste sapere che finite diretti in junk, almeno finché non inizierete a propormi qualcosa di meglio del tentativo di farvi leggere invadendo la posta elettronica altrui. 

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Appunti per un giornale che non c’è

Sono convinta, convintissima, che sarebbe il momento perfetto per fondare un nuovo giornale. Un giornale di carta, oltretutto (non solo, ma anche).

Conosco perfettamente i dati di vendita, quelle sulle abitudini di lettura, il costo di stampa e distribuzione, eccetera; non mi sfugge nemmeno che molti esperimenti recenti – incluso qualcuno al quale ho partecipato, come Pagina99 – siano finiti male.

Il momento è comunque perfetto.

Esiste una fetta enorme di popolazione (di sinistra) che non ha un giornale di riferimento, e con giornale di riferimento non intendo vicino a qualche partito. Parlo dei valori: quelli tradizionalmente appartenenti alla sinistra — non per forza alla militanza dura e pura, ma certamente a un afflato di fondo: la vicinanza ai più deboli, la difesa del lavoro sul capitale, l’importanza della cultura e della scuola, l’internazionalismo, i diritti civili, l’antimilitarismo, eccetera — che forniscono una chiave di lettura sul mondo. E che possano creare una comunità che condivide una certa visione del mondo stesso.

I giornali, con le loro prime pagine e la scelta di mettere in evidenza una cosa o l’altra, questo fanno: gerarchizzano i fatti e interpretano. Mentre su internet o in un newsfeed conta il singolo titolo, l’impaginazione delle notizie ha un suo ruolo fondamentale, perché dice qualcosa dell’importanza dei fatti, o almeno dell’importanza secondo chi il giornale lo fa. 
Per me molto spesso quello che succede in Cina o nella Silicon Valley, dove aziende private stanno facendo le regole dell’accesso alla conoscenza e delle dinamiche relazionali nella quasi inconsapevolezza generale, è molto più importante delle ciance di partito. E non solo lo è per me, ma vorrei che lo fosse per tutti quelli intorno: se lo fosse per tutti, si potrebbe sperare per esempio che la pulizia etnica degli uiguri da parte della nazione più popolosa al mondo diventasse prioritario anche nell’agenda di quei partiti che invece cianciano d’altro.

Lo spazio per un giornale esiste perché c’è una parte enorme di cittadini che non ha riferimenti, e ancorché si informi saltabeccando qui e lì tra siti, leggendo editoriali linkati sui social o comprando sporadiche copie di Internazionale e del Manifesto, di base non si ritrova in niente di quello che c’è in edicola (Internazionale è un caso più unico che raro, ma, attenzione, è un giornale fatto con intelligenza ma usando il lavoro di altri). Gente che investirebbe magari tre euro alla settimana per qualcosa da conservare, su cui imparare: un buon giornale può essere come un libro. Gli italiani di libri ne comprano pochi, è vero: ma qui comunque stiamo parlando di nicchie.

Un giornale siffatto dovrebbe fare quello che in Italia non si fa: spendere molti soldi per fare storie molto approfondite con il tempo che richiedono. Dimenticandosi dogmi tipo “Certo morti in Medio Oriente valgono come 10 morti in Europa”, specie se quei 100 morti raccontano di un mondo.
Storie documentate, fotografiche, lontane, vicine, seriali. Sul mondo e su casa nostra. Sull’economia e sulla politica ma con una visione lontana da tutto quello che è il chiacchiericcio di cui per lo più farciamo i quotidiani (con la pretesa di “Dare le notizie” e “informare i cittadini”), e che invece racconti come nascono le cose, dove nascono, perché.

Il che vuol dire che stiamo parlando di un prodotto su cui un filantropo o una fondazione possa decidere di spendere qualche milione di euro, sapendo che per i primi anni non li recupererà. Ma anche che non sono perduti: perché se il giornale andasse come può andare, e iniziasse a vendere abbonamenti perché produce cose che altri non fanno, potrebbe pian piano arrivare a break even. In Francia ce l’ha fatta Mediapart, con un’idea diversa (giornalismo di inchiesta legato perlopiù a questioni d’affari e politiche); in Olanda ce l’ha fatta The Corrispondent. In Italia Jacobin ha appena lanciato la propria campagna e io mi sono anche abbonata, ma si tratta di un prodotto di giornalismo “accademico”, più che di racconto o di inchiesta, e men che meno di notizie.

In questo inesistente giornale che vorrei direttore e redattori non sarebbero malati di protagonismo; non passerebbero le giornate a cementare il proprio ego sui social distribuendo pareri e notiziole (se una cosa è una notizia, allora si scrive bene facendola capire a tutti, non agli amichetti per mostrare che le cose le sai); non farebbero battute maldestre su cose serie; non darebbero del tu a quelli di cui scrivono; non sarebbero in televisione più di quanto sono in redazione. 
Mi piacerebbe un giornale che tornasse a essere un vero corpo condiviso, intimo e pubblico al contempo. In cui riconoscersi e mettersi comodi. Un giornale che rifugga l’autoreferenzialità e le dinamiche malate di questi tempi: per esempio quella per cui prima si tira al piccione contro qualcuno (l’ultimo, il povero Dario Corallo: uno colpevole di aver detto molte cose giuste e una frase sfortunata su Burioni, che comunque è idolatrato senza alcuno spirito critico per i modi e i toni che usa), poi si intervista qualcuno che si interroga sul tiro al piccione (“l’altra campana”), poi ci si impossessa del pensiero che nel frattempo sta sorgendo nel dibattito pubblico sul fatto che alla fine il qualcuno non aveva poi del tutto torto, ad ascoltarlo. Ecco: magari se lo si ascoltasse prima ci risparmieremmo le fasi intermedie.

A me pare che i lettori esistano ancora, e qualche giornale, da ultimo La Verità, l’ha dimostrato. 
Ovviamente, La Verità è fin dal titolo un giornale che non c’entra nulla con quello di cui ho scritto finora, e uno dei più lontani possibili da me: ha altri metodi (sarebbe bello a proposito chiedere a Belpietro a cosa è servito rivelare l’identità della compagna di Saviano, se non a metterne a rischio la vita, e chi è stato così gentile da dargli l’informazione facendo un servizio a Salvini), altra visione del mondo, altra vicinanza alla politica. Però ha provato che il dogma “I giornali di carta non vendono” è una sciocchezza, e quasi nessuno ha voglia di farsi martoriare dai pop up e dalla pubblicità per risparmiare tre euro, se pensa che quei tre euro siano ben spesi.

Ecco, mi piacerebbe sia spendere bene quei tre euro, sia lavorare perché qualcuno li spenda bene, facendo parte di questo ipotetico giornale. Mi piacerebbe proprio metterlo su, e c’è un sacco di gente con cui vorrei lavorare. Senza l’idea più innovativa del secolo ma tornando banalmente a fare quello che i giornali dovrebbero fare, hanno fatto e raramente ancora fanno. 
Non so a chi chiedere i soldi, però, e non penso che per fare una roba così basti un crowdfunding: ce ne vogliono tanti, bisogna investire parecchio e avere molta pazienza prima di pensare di raccogliere.

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Essere minoranza

Io, cosa significhi essere minoranza, lo so da sempre.

Sono minoranza dalla nascita, quasi per statuto. Il mio nome non ha santi (né eroi), non è comune e non è nemmeno italiano, anche se io lo sono.

Sono minoranza nella mia famiglia, in cui tutti hanno studiato giurisprudenza, inclusi i parenti acquisiti, e io a cinque anni già impaginavo il giornalino della prima elementare, sapendo che quello avrei fatto — o almeno voluto fare — nella vita.

Ero minoranza alle elementari, unica non battezzata in una scuola di suore, la sola che mi aveva  preso a cinque anni.

Ero minoranza alle medie, quando i miei compagni ascoltavano gli 883 e io ero malata dei Guns N’ Roses e dei Nirvana, per lo sgomento dei miei.
(Mio padre stava guardando il Tg3Notte quando arrivò la notizia che Cobain si era suicidato. Passavo dalla sala per caso, a quell’ora ero già a letto. Scoppiai a piangere, inconsolabile. Mio padre mi gelò: «Cosa cazzo piangi che non lo conosci nemmeno?»)

Ero minoranza nel posto in cui sono nata, Chiavari, una cittadina deliziosa ancorata a routine e abitudini che già a 15 anni mi avevano fatto secca: infatti chiesi di poter andare a studiare in America e scappai. D’altronde, anche i miei erano minoranza, a loro modo: arrivati da Milano, dove erano arrivati da Torino, dove erano arrivati da Aosta, dove si erano conosciuti essendo uno siciliano, l’altra bergamasca. Finiti in un posto in cui la maggior parte degli abitanti è stanziale da generazioni, passandosi case, attività commerciali, espressioni dialettali.

Nell’ultimo decennio sono stata minoranza rifiutando diverse offerte di lavoro, nel momento in cui già il giornalismo era una crisi mostruosa (che sarebbe peggiorata), per paura di annoiarmi, a fare il mestiere così. Andando via da posti di lavoro fissi e incarichi tecnicamente allettanti, pur di sentirmi libera, e poi sentendomi quotidianamente in balia del mutuo, dei conti, delle fatture emesse, pagate, non incassate. Ma comunque meglio che all’altra maniera.

Sono stata minoranza quando mi ha chiamato una parlamentare nota, chiedendomi di lavorare per lei: per due giorni ho pianto, sapendo che accettare era per mille ragioni la cosa più sensata. Non me la sentivo di lavorare per questi, e ho detto no.

Sono stata minoranza altre centomila volte, e lo sono per natura, indole, testardaggine, orgoglio, stupidità, vanità.

Oggi sono minoranza insieme a un sacco di altra gente, ma in modo del tutto diverso. E spaventoso.

Lo sono ogni volta che vedo un tweet di Salvini e capisco cosa c’è dietro, come sta fregando la gente, come la gente ha voglia di farsi fregare. Lo sono quando penso a quelli delle Iene, con ribrezzo per le campagne che hanno fatto negli ultimi dieci anni, e mi rendo conto che hanno vinto loro, che i metodi sono i loro. Non importa che per me Nadia Toffa o Giarrusso non saranno mai giornalisti o scrittori: lo sono per chi li segue, e chi li segue è la maggior parte del Paese. 
Noi che stiamo a casa a imbarazzarci per Conte che tiene su un cartello con scritto #DecretoSalvini con l’aria di un ostaggio, ma senza la dignità per metterlo giù, siamo ultra minoranza: fuori dal nostro recinto per qualcuno è spettacolo, per altri è politica, per altri è normale.

Metaforicamente, siamo già in un ghetto: infatti ci chiamano élite, intellettuali, buonisti, sinistroidi e qualsiasi altra cosa, anche se magari facciamo fatica a far quadrare i conti, abbiamo votato i radicali e non abbiamo mai letto Guerra e Pace. 
Lo siamo perché i criteri che ci eravamo dati, i nostri metri di giudizio, le cose che avevamo imparato per affrontare il mondo, la vita e il lavoro non servono più. Sono superati, sono vecchi. Le nostre ragioni sono vane, perché si esprimono in lingue e sintassi che non sono più universali: anche se volessero, gli interlocutori non riuscirebbero a capirci.

Ero abituata a essere minoranza, ma ora è cambiato tutto. E a questo non ero preparata.

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Dall’emergenza pitbull a quella migranti, in tre mosse

L’estate in cui i pitbull divennero emergenza è così lontana che quasi non la si ricorda: era il  2003 e il susseguirsi di aggressioni – o, meglio, del racconto di tali aggressioni sui media – fu così spinto che nel settembre di quell’anno l’allora ministro della Salute Sirchia varò la cosiddetta ordinanza pitbull per mettere paletti alla loro circolazione.
Da allora, i pitbull sono una specie di fiume carsico dell’informazione nostrana: appaiono e scompaiono nelle cronache a seconda della stagione (l’estate è meglio) e della predominanza di altre notizie più urgenti. Con una micro ricerca, si scopre per esempio che ci sono state quattro aggressioni di pitbull nei giorni scorsi, tanto da far scattare la richiesta di un patentino per chi ne possiede uno, ma di queste non si è avuto sostanzialmente notizia: i giornali e i le piattaforme social erano infatti piene della malattia di Sergio Marchionne e di un’altra emergenza, quella dei migranti.

Anche i bambini dimenticati in auto sono – purtroppo – un affluente del fiume carsico dell’informazione: ci sono state estati in cui sembrava che ogni giorno un genitore disgraziamente dimenticasse il proprio figlio, esperti che ci spiegavano della sindrome della memoria, cori collettivi di condanna o di comprensione verso questi sventurati genitori già evidentemente dilaniati dal dolore. Una ricerchina rapida, forse non esaustiva ma solo a titolo di esempio, dice invece che dal 1998 a oggi i casi sono stati otto: tantissimi, ma sono convinta che, affidandosi alla propria memoria, molti ne avrebbero contati molti di più.

Qualcosa di simile sta succedendo quest’estate con gli strupri commessi da richiedenti asilo. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini, via social, ci ha informato negli ultimi giorni di due casi – uno a Piacenza, uno a Reggio Emilia – commessi da un ragazzo del Mali e da un ucraino richiedenti asilo. Non esistono ovviamente dati sulle violenze del 2018, perché gli ultimi esistenti – reperibili sul sito dell’ufficio centrale di Statistica del ministero dell’Interno – si riferiscono al 2016. In quell’anno, il totale è stato 4.046.  Nel 2018, parlando al parlamento europeo,  Salvini (allora non ancora ministro) disse: «In un anno i reati compiuti da cittadini stranieri sono stati 250 mila: il 55% dei furti, il 51% dello sfruttamento della prostituzione, il 45% delle estorsioni, il 40% degli stupri, 1.500 stupri in un anno e l’Europa che fa?». La frase già da sé significa che la maggioranza degli stupri sono commessi da italiani e non da stranieri,  ma soprattutto omette che nel 2017 il numero degli stupri è calato di quasi 1.000  rispetto a 10 anni prima, anche se contemporaneamente il numero degli stranieri nel Paese è cresciuto del 71,18%  e quello dei richiedenti asilo del +681,69.
Chi avesse voglia di approfondire ulteriormente può leggersi questo lavoro della fondazione Hume, che peraltro ha un approccio che non minimizza affatto l’apporto che gli immigrati hanno sulle statistiche della criminalità (pur distinguendo il ruolo in diversi crimini: un conto sono i furti con destrezza, un altro sono le lesioni).

Il punto però – e perdonate se ci è voluto un po’ ad arrivarci – è che i numeri, ancorché spesso invocati, non sono poi così semplici da maneggiare: spesso devono essere interpretati, messi in relazione ad altre variabili (emarginazione e povertà, tra gli altri). Da soli sono parziali, per quanto possa sembrare strano, giacché si prestano a essere letti in un modo o nel suo opposto (come dimostra la frase di Salvini sopra riportata). E sono fortemente influenzati dall’emotività: valeva per i pitbull, per i bimbi dimenticati in auto, ora per i richiedenti asilo che stuprano donne.
Senza timore di smentita, si può dire che il ministro dell’Interno è stato molto accorato e molto emotivo rispetto a questi stupri. Ha scritto diversi post su tutti i social, usando caratteri maiuscoli e dopo aver raccolto centinaia di commenti ha anche promesso un’ulteriore stretta sui richiedenti asilo.

Nelle ultime settimane, mi sono sforzata di dedicare molto più tempo di quello che vorrei (e persino che avrei) a discutere su Facebook di migranti, della comunicazione del governo, delle misure proposte. Ho scritto due diversi post che tra risposte e controrisposte hanno totalizzato intorno ai 200 commenti ciascuno (qui e qui).
I post mi hanno costretto a  giornate estenuanti, e la parola non è eccessiva.
Tuttavia, ho imparato alcune cose utili. La prima, forse banale, è che l’emotività vince sui numeri mille a uno. Più di una persona ha risposto dicendo che se ne frega dei numeri, perché quello che conta è ciò che vede coi propri occhi. Potrebbe essere un discorso parziale, ma in parte motivato, se non fosse che persino laddove quello che si vede non coincide con la realtà, le opinioni non cambiano.  «Il lungomare di Chiavari è diventato un posto in cui non puoi neanche far giocare i bambini», ha scritto una persona (riassumo discorsi più lunghi), e domenica mi sono data la pena di andare a controllare: il lungomare non ha segni particolari di sporcizia, degrado o pericolo. Dunque non solo che non si crede ai numeri (una laureata in giurisprudenza ha detto di non fidarsi delle statistiche dell’Istat, perché «chissà come le fanno») ma si deforma la realtà materiale, a portata di mano, per farla coincidere con il proprio pregiudizio.

La seconda cosa che ho imparato è che le persone di cui sopra non sanno discutere di un tema. Non che manchi loro la capacità linguistica, ma non sanno stare su un punto: se si parla di numeri, loro risponderanno con la saggezza popolare. Se si parla di inquinamento, loro tireranno fuori la bontà dei coni gelato. Se chiedi loro di definire radical chic, diranno che non vale la pena parlarne. L’incapacità di rispondere punto su punto è una specie di campanello d’allarme chiarissimo: l’emotività sta prendendo piede e cancella ogni possibilità di un dialogo razionale, se mai potesse esserci. Più si entra nello specifico, poi, più è impossibile ottenere una risposta. E più cresce l’aggressività.

E siamo al terzo punto. L’aggressività non è mai (per fortuna, per ora), esplicita. Ma si manifesta con la derisione, il sarcasmo, il discredito: «Non prendo lezioni da te», «Voi radical chic con la maglietta rossa che fatturate alle multinazionali», «Voi che siete così buoni quanti profughi avete in casa?» sono alcune delle frasi che mi sono state rivolte, e ancorché abbia provato a replicare nel merito a ciascuna, con calma, non solo non ho ottenuto risposta ma ho invece assistito a un esplodere di applausi, faccine sotto ai commenti derisori.
Il metodo, peraltro, arriva dall’altro: i bacioni, le carezze, le derisioni sono pane quotidiano dei politici sui social (mi duole ricordare che gufi, rosiconi e ciaone sono prodotti indecenti della comunicazione renziana e piddina). Ed è un metodo con cui si demolisce il dialogo, si annientano le questioni e si banalizzano numeri, dati, informazioni. Sono il metodo (non lo stile, attenzione: il metodo), a cui sono abituati coloro che passano parecchie tempo sui social.

Insomma: i numeri sono complessi e difficili da interpretare anche da chi vorrebbe farlo. Inoltre molti non sono interessati a farlo, né ci provano: sono più a loro agio con l’emotività solleticata da numeri decontestualizzati, o magari inesistenti, che si tratti di pitbull, di bambini dimenticati in auto o degli strupri commessi dai richiedenti asilo. Una volta solleticata quell’emotività, tuttavia, è impossibile ricondurla alla ragione: si entra nella fase tre, quella della derisione, del sarcasmo e del discredito.

Qualche settimana fa sull’Irish Times è comparso un ottimo pezzo che in sostanza diceva questo: nessun autocrate è partito avendo il 90% dei consensi. Di norma, si parte con qualcosa vicino (o inferiore) al 40% e da lì si sondano gli umori, spostando sempre più in là l’audacia (o la moralità) delle proprie proposte: si vede come reagiscono gli elettori, si aggiusta il tiro, si sposta poco a poco l’asticella. L’esempio riportato era  Trump con la separazione dei figli dei migranti dai loro genitori, su cui poi è stato costretto a tornare indietro.

Ora, la mia sensazione è che le tre fasi di cui sopra siano la palestra perfetta per giocare con questa campagna di conquista del consenso. Si allenano le persone a essere sempre più emotive e sempre meno razionali; si veicolano messaggi che smontano il dissenso con un po’ di sarcasmo e un po’ di umorismo calato dall’alto, condivisibile e replicabile a mezzo hashtag; si prova infine a spingere l’asticella sempre un po’ più in là.

Il risultato non è per forza un autocrate, ma nell’immediato sono provvedimenti che anche solo cinque anni fa sarebbero sembrati inumani. Come la decisione di cacciare le Ong dal mare. O di chiudere i porti. O di stringere sulle richieste d’asilo e di diminuire i permessi umanitari.
Misure su cui non è dato interrogarsi, perché sono giuste per forza: questo suggerisce l’emotività. Dunque non solo si accettano e si sostengono, ma accrescono la fiducia nei confronti di chi le mette in campo. Che poi non servano a risolvere un problema reale, ma solo a creare un consenso basato su percezioni artefatte, che un domani sarà ampliato con altra emotività e altre percezioni artefatte e altre misure per soddisfarle, è un effetto collaterale di cui molti non si rendono conto, ma di cui il politico di turno è perfettamente consapevole.

E hai voglia a dirlo, a raccontarlo, a provare a spiegarlo con i numeri. Chi non gioca con le regole basate sulle tre mosse, è fuori dall’arena. Che abbia ragione o torto nell’esprimere il dissenso, in questo momento non conta nemmeno: è come se parlasse un alfabeto diverso, incomprensibile ai più. Questa è la fase in cui siamo.
Per recuperare un dialogo, e cercare di recuperare la logica, bisogna quindi intanto ricostruire un alfabeto comune. Ma nessuno sa da dove partire.

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Le responsabilità del giornalismo

E così siamo arrivati alla mattina dopo l’Armageddon, che a pensarci non era poi così imprevedibile e impensabile come parecchie prime pagine e commentatori ci hanno spiegato nelle ultime 24 ore. 

Non serve dire perché non era difficile da intuire – mi fregio di aver detto per settimane che il Pd non avrebbe preso il 20% e che la Lega avrebbe sorpassato Forza Italia; in compenso, sul resto della sinistra e sulla Bonino ho sbagliato grandemente – ma è invece utile ricordare quanto per mesi ci è sembrato scontato che l’unico esito possibile fosse un altro governo Renzi-Berlusconi, il famigerato Nazareno Bis. I giornali, di qualsiasi inclinazione, l’hanno descritta non solo come l’unica soluzione, bensì come il solo progetto possibile per la legislatura nascente: tutti, ogni giorno, con articolesse e commenti e indiscrezioni fatte dei soliti virgolettati piazzati ad hoc. Salvo poi, un paio di settimane fa, ingranare la retromarcia e iniziare a sparare titoli sul Nazareno che non si sarebbe fatto, senza mai nemmeno sprecare una mezza riga per dire: scusate, sono mesi che vi diamo come certa, scontata e quasi indispensabile una cosa che invece non stava nei numeri, ci dispiace, abbiamo fatto una cazzata. 

Considero l’atteggiamento – sia il prima che il dopo – gravissimo, e ne ho discusso a lungo con colleghi (i quali, molti facendo politica, non sono stati esattamente d’accordo: ma non c’è da stupirsene). E credo che sia l’occasione per fare chiarezza, su almeno due cose cruciali.

La prima è l’origine della certezza che ci è stata propinata per mesi, ossia l’inevitabilità della coalizione Pd-Fi. Diciamocelo una volta per tutte: nessun giornalista politico che carpisce una dichiarazione “scomoda” o riflessioni sul futuro – ovvero le cose all’origine degli scenari prospettati –  le pubblica senza avere una specie di assenso di chi l’ha pronunciata o di coloro che gli stanno intorno e se ne fanno interpreti, perché se lo facesse sarebbe destinato a non sapere più niente nel futuro. Verrebbe escluso dal giro di quelli a cui le cose si fanno arrivare, i giornalisti con cui «si parla», come si dice in gergo.
Il giro dei virgolettati rubati e delle indiscrezioni è insomma una partita in cui ogni giocatore, di ogni partito, passa a un giornalista qualcosa che gli fa comodo che venga pubblicato, riguardo la propria formazione o avversari, e di cui il giornalista, a seconda della propria serietà e mezzi, verifica la veridicità o la verosimiglianza.

Cosa significa, all’atto pratico? Che scenari, congetture e piani B sono stati fatti filtrare per mesi sui giornali e sono stati dati come inevitabili, senza che nemmeno i sondaggi suffragassero le ipotesi: si è detto fino all’ultimo giorno che la volatilità del voto era massima. E quindi –  e qui arrivo al secondo punto – i giornali hanno contribuito a dettare un’agenda politica e a polarizzare il dibattito intorno a ipotesi di cui non solo non potevano in alcun modo valutare la fattibilità, ma che chiaramente hanno influito energicamente sulla percezione degli elettori: quanti avranno votato CinqueStelle per evitare il sicuro inciucio Renzi Berlusconi?

A queste mie riflessioni fatte in pubblico, qualche collega ha risposto: «È sempre stato così, bisogna animare il dibattito». Io non so dire se ai tempi della Prima Repubblica fosse così: non c’ero e (ri)conosco le dinamiche del mestiere da meno di 15 anni. So però di certo che la risposta è – per me e, suppongo, per molti elettori – disarmante. Ed è, probabilmente, anche in parte la causa del crollo delle copie dei giornali. 

Esiste una responsabilità nel fare i giornalisti, ed è tanto più ampia quanto più si tocca la materia viva capace di influire sulla vita di tutti. La politica questo dovrebbe essere, e finché viene trattata soltanto come un trono di spade qualsiasi, come intrighi di palazzo e battaglie d’onore e cretini contro furbi, tale sarà percepita dalla gente: con valore zero. Il che spiega perché i primi che arrivano e propongono due cose che suonano concrete («Aboliamo la Fornero», «Il reddito di cittadinanza»: che si possano o meno fare è altro conto) vengono creduti e sostenuti. 

Soprattutto, il giornalista sa che si sta prestando a un gioco, pur con il nobile intento di dare una notizia (che spesso però è una non notizia): ma non lo sanno quelli che dovrebbero leggerlo. 
E il disinvolto dispiegare (non) notizie contrastanti, o scenari opposti, senza nemmeno un briciolo di riflessione su come quanto scritto fino a quel momento possa aver contribuito a un certo risultato – allo scoramento degli elettori, per esempio; al polarizzare il dibattito su cose non reali sottraendo tempo a quelle reali; alla percezione sempre peggiore che i cittadini hanno di molto giornalismo – bè, è il chiaro segno che davvero stiamo dalla parte sbagliata delle vicende: non sopra, come ci piacerebbe far credere, e sicuramente non dalla parte del popolo che vorrebbe essere informato e riflettere con spunti critici, ma da quella di chi deve autoalimentare il proprio circolo di attenzione. 

Non stupiamoci poi se al governo va chi i giornali e i giornalisti li ha sempre trattati a pesci in faccia, portandosi con se metà Italia che non sa nemmeno che faccia abbiano Repubblica o il Corriere: mi pare del tutto comprensibile. Forse, addirittura, inevitabile. 

 

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Questa notte è per voi

Domani, finalmente, apriamo le iscrizioni a FreeJourn. Domani, in questo momento della serata, appare ancora discretamente lontano: mi candido a infilare la seconda notte di fila davanti al computer, dopo il secondo giorno incollata al telefono, a basecamp, a documenti da ricostruire, tradurre, emendare.
Pensavo che avrei avuto un cedimento invece, finora, è stato divertente: intenso, stressante, consumante, ma divertente. Ho trascorso gli ultimi giorni con il mac su un tavolino in terrazza, il sole a squagliarmi di giorno e i moscerini a ronzare la sera, parecchie birre e pizze surgelate, Giuliana e Niccolo a guardare le immagini, video da 10 giga da scaricare e foto da scoprire, molti spaventi, qualche insoddisfazione, la paura di non farcela.  
Potrebbe succedere: FreeJourn* è una bella idea che potrebbe andare benissimo ma anche fallire miseramente, perché i soldi, la partecipazione e l’editoria sono al momento tre variabili di un’equazione insoluta. Lo sapevo anche quando ho iniziato a lavorarci sopra e coi mesi mi è stato sempre più chiaro: oggi ne sono consapevole col disincanto di chi ha cresciuto quasi un figlio, ma poi deve accettare che a scuola conosca una gang di teppisti e se ne lasci affascinare. Forse, d’altronde, me ne farei affascinare anche io.
In fin dei conti non conta poi molto. L’importante è quello che ha dato, e cioè il processo della creazione: sembra una frase da TedX di provincia, ma non sempre si è abbastanza bravi con le parole per condensare adeguatamente la carica emozionale che vorresti metterci dentro. 
Ho smesso di credere nel giornalismo da parecchio. Forse quando lasciai la guida di Lettera43, forse molto prima.  Già: esiste qualcosa di peggio di una giornalista che dice qualcosa del genere? Magari mi radieranno dall’ordine, magari mi taglieranno le collaborazioni: sarebbe una bella prova di certe dinamiche e cointeressenze, quindi non credo che succederà. D’altronde non è che non creda al giornalismo come istituzione: figuriamoci, penso di essere una dei cento in Italia a pagare ancora una serie di abbonamenti a riviste anglosassoni. E non è nemmeno che per fare i giornalisti si debba stare per forza in un Paese anglofono – anche se, detto onestamente, credo che aiuti parecchio.
Quello che mi ha stancato è la pratica del giornalismo. Le redazioni chiuse in loro stesse, forzate alla scrivania dal conto economico, costrette al realismo, ai social network, all’innovazione, alle agenzie, all’essere sempre più brillanti, in spazi sempre più stretti («Due scroll! Tre al massimo: ragazzi, nessuno va oltre il terzo scroll, non dobbiamo fargli fare fatica!»), a trasformare qualsiasi tendenza giovanilistica in discorso sociologico, coi capiredattori a fare da risorse umane e i redattori a fare tutto il resto. Certo, non è detto che sia sempre così, eppure di redazioni ne ho frequentate abbastanza per sapere che è un male diffuso.
Forse è colpa – merito? –  di chi mi ha avvicinato al mestiere, forse dei libri che ho letto e di certe idee di ragazzina che a 37 anni ha scoperto di avere un’allergia alle gerarchie e alle sclerotizzazioni che comportano. Ma quello che cerco nelle cose che leggo è una dimensione più intensa, dilatata, anche creativa: sono sempre stata una da racconto lungo, molto prima che long form diventasse una parola di moda. Le cose che mi piacciono non ci stanno in due pagine e spesso nemmeno in sette, di solito oggi diventano video che guardi in cinque minuti senza la fatica di dovertele immaginare mettendo insieme gli elementi. A me piacciono soprattutto quando sono libri, tipo i David Foster Wallace e gli Hunter S. Thompson e i Lester Bangs, che ovviamente non sono esempi facili ma anche oggi c’è chi ha le idee e sa come realizzare, e mi vengono in mente i River Boom, tra molti (sì, sono anche miei amici, il che peraltro mi fa ancora più contenta nel dire che siano geniali).
Forse sono all’antica, di un tempo e di un modo che nella pratica del giornalismo non esistono più e non hanno più nemmeno ragione di esistere: il reportage, le venti pagine di intervista, l’inchiesta che non devi memorizzare 60 nomi in 30 righe, ma in cui li conosci pian piano, entri dentro alla loro vita e alle loro pratiche.
Forse invece banalmente in me la parte giornalistica in senso ortodosso, che a molti dà grandi soddisfazioni e che qualcuno fa molto bene, si è diluita in una cosa più autoriale, che con le notizie si sovrappone solo in minima parte: e so bene che le notizie sono l’essenza del giornalismo (poi, ovviamente, bisognerebbe intendersi sul concetto di notizia e anche di come si informano le persone, ma questo comporterebbe aprire un altro discorso ancora).  
Tutto questo per dire che FreeJourn, pur con qualche limite e gli errori che certamente abbiamo fatto e che faremo ancora, pur col rischio che domani al sign up non tengano i server o chissà che, è stato anche un modo bello di ritrovare l’entusiasmo: dopo Mi fido di te e prima di Godstock (teaser: se davvero andasse bene, Gabri e io ci metteremo un paio di anni a scodellarvelo, temo), trasversale ai miei interessi e alle opportunità. Ci ha lavorato un gruppetto di persone assortito, e tutte hanno dato un contributo essenziale; c’ho trovato dentro il piacere di una squadra fortissimi, un’amica, l’abbattimento di certi pregiudizi, il piacere di chi ha voglia di buttarsi in qualcosa, l’importanza dell’equilibrio. 
Questa notte, insomma, va così.
E se siete giornalisti freelance, buonanotte, questa notte è per voi. 

[* FreeJourn è una piattaforma per reporter freelance, essenzialmente, ma se lo volete scoprire con calma ci sono il blog, i social e fra pochissimo anche i moduli online per iscriversi].  

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High and dry

A computer with a view (or a girl on the terrace).

 

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Il giornalismo nell’era di Twitter

(Soundtrack: Times they are a changing)

Succede che leggi il New York  Times e ci trovi delle storie di giornalismo vero, costate (immagino) molta fatica e molte ricerche ai loro autori: l’unico uomo che ha battuto Putin in un tribunale, le armi chimiche in Iraq, i documenti secretati sul ruolo dei sauditi nell’11 settembre. Poi vai a guardare chi le ha scritte, e benché da anni tu legga i quotidiani Usa, frequenti i programmi d’informazione americani e abbia conoscenza degli States, non hai la minima idea di chi siano questi, o certamente quantomeno non hai la minima idea di che faccia abbiano o di che suono abbia la loro voce. Ed è un sollievo reale: eureka, sono giornalisti!
E cioè: sono giornalisti, non salottari, massmediologi, twittaroli, bellimbusti (o, talvolta, persino bruttimbusti) abbronzati votati alle poltrone Frau dei talk show come ospiti fissi con iPad in mano e pallottiere dei follower nell’altra. Sono giornalisti, ovvero, nelle parole di un mio anziano maestro che non c’è più, artigiani dell’informazione: gente che non cerca visibilità, votata al lettore e alla chiarezza dei fatti.
In Italia, oggi, i giornalisti vendono soprattutto se stessi: esistono persino dei corsi su Come creare un brand, e non è che in sé sia sbagliato – qualsiasi testata giornalistica intelligente deve farsi conoscere – se non fosse che da noi c’è sempre molta confusione tra il singolo e la testata e quale due due sia più importante, ma soprattutto c’è molta confusione tra cos’è un giornalista e cos’è un brand, salvo la crescente attitudine di certi giornalisti a considerare se stessi e un gruppetto di colleghi un brand in carne e ossa, a prescindere da quello che possono offrire al lettore.
L’Italia, per dire, è quel posto in cui un giornalista scrive (peraltro con un’ottima penna) un articolo sul vecchio giornale in cui lavorava e sul direttore, e su Twitter è tutto uno squittire di ex colleghi che si sdilinquiscono, aggiungono, precisano, ritwittano, in un’operazione collettiva (temo persino involontaria) di costruzione di un’immagine lirica, poderosa e sentimentale del giornale stesso. Un’operazione degna delle Pr, in epoca contemporanea, perché anche solo fino a qualche anno fa l’immagine di un giornale se la auto-costruivano i lettori a seconda di quello che pubblicava (nel caso in questione, oltretutto, Il Foglio, fa bene il suo lavoro senza bisogno di questi salamelecchi patetici di chi l’ha fondato: questo tipo di ricostruzione si tollera oggi dalla Rossanda parlando del Manifesto, capirete che tempi e opportunità sono un po’ diversi).
L’Italia è anche quel Paese in cui esistono riviste che dedicano parecchie pagine a un servizio su “Come si costruiscono i quotidiani”, una roba che una volta si studiava alle Medie in educazione tecnica, e che ora invece diventa una specie di messaggio trasversale tra giornalisti, un segno d’arguzia e di fighismo, una gara a chi è più avanti: d’altronde, quella rivista (Studio, sempre senza offesa) la conoscono solo i giornalisti, e per lo più di Milano. Già, perché ormai siccome dei lettori non se ne cura più nessuno e pochissimi cercano ancora storie e notizie che non facciano parte del loro stesso mondo (cioè quello dei media), i lettori sono diventati i giornalisti, in un gioco di specchi e speculazioni con potenza resa logaritmica da quella grande abbuffata per gli ego che è la mangiatoia di Twitter.
L’Italia, infine, è anche quel posto in cui il portavoce del primo ministro (uno, peraltro, che non ha esattamente bisogno che la sua voce sia amplificata, ma capisco che sia una dotazione minima per essere premier) è un giornalista – un ottimo giornalista mi risulta – i cui colleghi oggi magnificano con lunghi articoli e citazioni e sfoggi di amicizia, al posto magari di segnalarne eventuali incongruenze (non sto dicendo che ci sono, sto dicendo che se ci fossero andrebbero segnalate, specie da chi le conosce bene)  o di fare le pulci all’operato del governo e al suo culto della persona.
Lo so: mi odiate. Giuro, io stessa mi sento sempre un po’ retrograda e imbarazzata nel dire queste cose: ma, dannazione, sono vere. Apritevi un account su Twitter e seguiti i 20 giornalisti italiani più popolari su Internet («La popolarità è la cuginetta zoccola del prestigio», dice qualcuno in Birdman, e anche se non è una citazione di Montanelli mi pare assolutamente degna) e constaterete con mano.
Spero che sia chiaro: questo non è un anatema contro Twitter. Twitter è uno strumento, e spesso è utilissimo: il numero di cose che riesco a leggere perché qualcuno le segnala e che altrimenti perderei non si conta. Di recente è stata creata la prima testata solo su Twitter (reported.ly) e fornisce informazioni puntuali, accurate, probabilmente introvabili diversamente. Ci sono giornalisti che su Twitter mi risultano indigeribili, ma poi fanno prodotti editoriali di tutto rispetto. E tuttavia il social network è anche uno stagno in cui specchiare ego gonfiati a dismisura, di giornalisti che con i loro lettori e con l’idea di servire il lettore ormai non hanno più niente a che vedere.
Magari è quell’idea a essere sbagliata: posso accettare il dubbio. Ma qualcuno allora mi spieghi cosa deve fare e chi deve servire oggi il giornalismo.

 

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La potenza distruttiva dell’equo compenso

Ho avuto un’epifania: non so più scrivere.
Non è un granché come scoperta, specie in questo momento. Ma facciamo che non lo dite al mio editore e auspicabilmente lui potrebbe non accorgersene.
E’ andata così: ho passato talmente tanto tempo negli ultimi mesi (anni?) a leggere in inglese che non so più scrivere in italiano. Quindi mi autodenuncio. In parte anche per salvare i 20 milioni di bambini e adolescenti le cui madri, in questo momento, staranno gracchiando o supplicando compassionevoli: «Marco (o: Cosimo, Antonietta, Genoveffa, Giulia, Stefano), perché non leggi un po’ in inglese? Ti farebbe così bene. Lo dice anche la tua insegnante che ne avresti bisogno per impararlo meglio: non rincretinerti davanti ai videogame, leggi in inglese».
(Ai Marco o Cosimo, Antonietta, Genoveffa, Giulia, Stefano: vostra madre, comunque, ha ragione).
Insomma, un problema c’è. Gli anglosassoni, specie i giornalisti, sono lineari. Elementari. Diretti. Soggetto, verbo, complemento. Ogni frase* fa procedere il discorso: non ci gira mai intorno. Non so se la differenza è chiara, ma dovrebbe esserla: gli italiani sublimano i discorsi con una scrittura piena di rimandi, giochi, allusioni, espressioni un po’ retrò che fanno scena, citazioni dotte e via discorrendo. Poi magari qualche lettore non ci capisce nulla, ma certamente è colpa sua: non è abbastanza intelligente o preparato.
Gli anglosassoni no, sono spicci. Anche quelli che vincono il Pulitzer. Contate il numero di ripetizioni in un’inchiesta qualsiasi del New York Times (vanno bene tutte: sono tutte eccellenti) e saprete quante mazzate avreste preso dal vostro caporedattore se foste stati voi a scriverlo così, quel pezzo lì.
E’ successo che, siccome i quotidiani italiani dedicano 13 pagine al giorno a presunti retroscena che spesso sono poco più di congetture sulla base dell’umore, due a notizie di Ansa commentate e rincicciate e un paio magari a cose buone, spesso ispirate (quantomeno) dai giornali stranieri, io da anni leggo con attenzione soprattutto i giornali stranieri. E no, se dicessi che scrivo come il Nytimes meriterei comunque una bella serie di mazzate: perché magari esserne capaci davvero.
Invece sono in quella fase in cui i ghirigori mi risultano indigeribili, figli di un Ego maggiore che deborda in pagina, ma l’asciuttezza americana diventa stringatezza. E poi quell’asciuttezza lì va bene se hai in mano lo scoop delle armi chimiche in Iraq, altrimenti diventi arido come un dolce non lievitato.
Se poi volessimo proseguire, dovremmo aggiungere che lo scoop delle armi chimiche in Iraq ce lo hai in mano se l’editore è disposto a spendere più di 20 euro a pezzo: ma da noi, il sindacato nazionale giornalisti e l’associazione degli editori hanno ritenuto che quello sia un equo compenso.
Il che riporta all’esigenza di leggere altro, perché quotidiani che pagano redattori (spesso) incartapecoriti, maratoneti del retroscena fino all’ultimo respiro, corrispondenti dall’estero che riassumono (a volte anche brillantemente) i pezzi di altri e poveri freelance che se dimostrano di aver bisogno di soldi vengono tacitamente umiliati producono davvero poco di stimolante (eccezione fatta per i freelance, spesso).
Ma più leggi in inglese più scrivi come se fossi inglese, però in italiano: e questo è un problema.
In fin dei conti, dunque, se non so più scrivere è colpa dell’equo compenso, anche se al momento non mi pagano nemmeno. Pensa che potenza distruttiva.

*una versione precedente di questo articolo recitava: “Ogni sentenza fa procedere il discorso”, al posto di “ogni frase”. Dall’inglese: sentence. La prova che sono fritta.
**il pezzo sui freelance linkato poco sopra è quello di Michele Masneri uscito sul Foglio: una lettura antologica. 

 

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