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Dall’emergenza pitbull a quella migranti, in tre mosse

L’estate in cui i pitbull divennero emergenza è così lontana che quasi non la si ricorda: era il  2003 e il susseguirsi di aggressioni – o, meglio, del racconto di tali aggressioni sui media – fu così spinto che nel settembre di quell’anno l’allora ministro della Salute Sirchia varò la cosiddetta ordinanza pitbull per mettere paletti alla loro circolazione.
Da allora, i pitbull sono una specie di fiume carsico dell’informazione nostrana: appaiono e scompaiono nelle cronache a seconda della stagione (l’estate è meglio) e della predominanza di altre notizie più urgenti. Con una micro ricerca, si scopre per esempio che ci sono state quattro aggressioni di pitbull nei giorni scorsi, tanto da far scattare la richiesta di un patentino per chi ne possiede uno, ma di queste non si è avuto sostanzialmente notizia: i giornali e i le piattaforme social erano infatti piene della malattia di Sergio Marchionne e di un’altra emergenza, quella dei migranti.

Anche i bambini dimenticati in auto sono – purtroppo – un affluente del fiume carsico dell’informazione: ci sono state estati in cui sembrava che ogni giorno un genitore disgraziamente dimenticasse il proprio figlio, esperti che ci spiegavano della sindrome della memoria, cori collettivi di condanna o di comprensione verso questi sventurati genitori già evidentemente dilaniati dal dolore. Una ricerchina rapida, forse non esaustiva ma solo a titolo di esempio, dice invece che dal 1998 a oggi i casi sono stati otto: tantissimi, ma sono convinta che, affidandosi alla propria memoria, molti ne avrebbero contati molti di più.

Qualcosa di simile sta succedendo quest’estate con gli strupri commessi da richiedenti asilo. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini, via social, ci ha informato negli ultimi giorni di due casi – uno a Piacenza, uno a Reggio Emilia – commessi da un ragazzo del Mali e da un ucraino richiedenti asilo. Non esistono ovviamente dati sulle violenze del 2018, perché gli ultimi esistenti – reperibili sul sito dell’ufficio centrale di Statistica del ministero dell’Interno – si riferiscono al 2016. In quell’anno, il totale è stato 4.046.  Nel 2018, parlando al parlamento europeo,  Salvini (allora non ancora ministro) disse: «In un anno i reati compiuti da cittadini stranieri sono stati 250 mila: il 55% dei furti, il 51% dello sfruttamento della prostituzione, il 45% delle estorsioni, il 40% degli stupri, 1.500 stupri in un anno e l’Europa che fa?». La frase già da sé significa che la maggioranza degli stupri sono commessi da italiani e non da stranieri,  ma soprattutto omette che nel 2017 il numero degli stupri è calato di quasi 1.000  rispetto a 10 anni prima, anche se contemporaneamente il numero degli stranieri nel Paese è cresciuto del 71,18%  e quello dei richiedenti asilo del +681,69.
Chi avesse voglia di approfondire ulteriormente può leggersi questo lavoro della fondazione Hume, che peraltro ha un approccio che non minimizza affatto l’apporto che gli immigrati hanno sulle statistiche della criminalità (pur distinguendo il ruolo in diversi crimini: un conto sono i furti con destrezza, un altro sono le lesioni).

Il punto però – e perdonate se ci è voluto un po’ ad arrivarci – è che i numeri, ancorché spesso invocati, non sono poi così semplici da maneggiare: spesso devono essere interpretati, messi in relazione ad altre variabili (emarginazione e povertà, tra gli altri). Da soli sono parziali, per quanto possa sembrare strano, giacché si prestano a essere letti in un modo o nel suo opposto (come dimostra la frase di Salvini sopra riportata). E sono fortemente influenzati dall’emotività: valeva per i pitbull, per i bimbi dimenticati in auto, ora per i richiedenti asilo che stuprano donne.
Senza timore di smentita, si può dire che il ministro dell’Interno è stato molto accorato e molto emotivo rispetto a questi stupri. Ha scritto diversi post su tutti i social, usando caratteri maiuscoli e dopo aver raccolto centinaia di commenti ha anche promesso un’ulteriore stretta sui richiedenti asilo.

Nelle ultime settimane, mi sono sforzata di dedicare molto più tempo di quello che vorrei (e persino che avrei) a discutere su Facebook di migranti, della comunicazione del governo, delle misure proposte. Ho scritto due diversi post che tra risposte e controrisposte hanno totalizzato intorno ai 200 commenti ciascuno (qui e qui).
I post mi hanno costretto a  giornate estenuanti, e la parola non è eccessiva.
Tuttavia, ho imparato alcune cose utili. La prima, forse banale, è che l’emotività vince sui numeri mille a uno. Più di una persona ha risposto dicendo che se ne frega dei numeri, perché quello che conta è ciò che vede coi propri occhi. Potrebbe essere un discorso parziale, ma in parte motivato, se non fosse che persino laddove quello che si vede non coincide con la realtà, le opinioni non cambiano.  «Il lungomare di Chiavari è diventato un posto in cui non puoi neanche far giocare i bambini», ha scritto una persona (riassumo discorsi più lunghi), e domenica mi sono data la pena di andare a controllare: il lungomare non ha segni particolari di sporcizia, degrado o pericolo. Dunque non solo che non si crede ai numeri (una laureata in giurisprudenza ha detto di non fidarsi delle statistiche dell’Istat, perché «chissà come le fanno») ma si deforma la realtà materiale, a portata di mano, per farla coincidere con il proprio pregiudizio.

La seconda cosa che ho imparato è che le persone di cui sopra non sanno discutere di un tema. Non che manchi loro la capacità linguistica, ma non sanno stare su un punto: se si parla di numeri, loro risponderanno con la saggezza popolare. Se si parla di inquinamento, loro tireranno fuori la bontà dei coni gelato. Se chiedi loro di definire radical chic, diranno che non vale la pena parlarne. L’incapacità di rispondere punto su punto è una specie di campanello d’allarme chiarissimo: l’emotività sta prendendo piede e cancella ogni possibilità di un dialogo razionale, se mai potesse esserci. Più si entra nello specifico, poi, più è impossibile ottenere una risposta. E più cresce l’aggressività.

E siamo al terzo punto. L’aggressività non è mai (per fortuna, per ora), esplicita. Ma si manifesta con la derisione, il sarcasmo, il discredito: «Non prendo lezioni da te», «Voi radical chic con la maglietta rossa che fatturate alle multinazionali», «Voi che siete così buoni quanti profughi avete in casa?» sono alcune delle frasi che mi sono state rivolte, e ancorché abbia provato a replicare nel merito a ciascuna, con calma, non solo non ho ottenuto risposta ma ho invece assistito a un esplodere di applausi, faccine sotto ai commenti derisori.
Il metodo, peraltro, arriva dall’altro: i bacioni, le carezze, le derisioni sono pane quotidiano dei politici sui social (mi duole ricordare che gufi, rosiconi e ciaone sono prodotti indecenti della comunicazione renziana e piddina). Ed è un metodo con cui si demolisce il dialogo, si annientano le questioni e si banalizzano numeri, dati, informazioni. Sono il metodo (non lo stile, attenzione: il metodo), a cui sono abituati coloro che passano parecchie tempo sui social.

Insomma: i numeri sono complessi e difficili da interpretare anche da chi vorrebbe farlo. Inoltre molti non sono interessati a farlo, né ci provano: sono più a loro agio con l’emotività solleticata da numeri decontestualizzati, o magari inesistenti, che si tratti di pitbull, di bambini dimenticati in auto o degli strupri commessi dai richiedenti asilo. Una volta solleticata quell’emotività, tuttavia, è impossibile ricondurla alla ragione: si entra nella fase tre, quella della derisione, del sarcasmo e del discredito.

Qualche settimana fa sull’Irish Times è comparso un ottimo pezzo che in sostanza diceva questo: nessun autocrate è partito avendo il 90% dei consensi. Di norma, si parte con qualcosa vicino (o inferiore) al 40% e da lì si sondano gli umori, spostando sempre più in là l’audacia (o la moralità) delle proprie proposte: si vede come reagiscono gli elettori, si aggiusta il tiro, si sposta poco a poco l’asticella. L’esempio riportato era  Trump con la separazione dei figli dei migranti dai loro genitori, su cui poi è stato costretto a tornare indietro.

Ora, la mia sensazione è che le tre fasi di cui sopra siano la palestra perfetta per giocare con questa campagna di conquista del consenso. Si allenano le persone a essere sempre più emotive e sempre meno razionali; si veicolano messaggi che smontano il dissenso con un po’ di sarcasmo e un po’ di umorismo calato dall’alto, condivisibile e replicabile a mezzo hashtag; si prova infine a spingere l’asticella sempre un po’ più in là.

Il risultato non è per forza un autocrate, ma nell’immediato sono provvedimenti che anche solo cinque anni fa sarebbero sembrati inumani. Come la decisione di cacciare le Ong dal mare. O di chiudere i porti. O di stringere sulle richieste d’asilo e di diminuire i permessi umanitari.
Misure su cui non è dato interrogarsi, perché sono giuste per forza: questo suggerisce l’emotività. Dunque non solo si accettano e si sostengono, ma accrescono la fiducia nei confronti di chi le mette in campo. Che poi non servano a risolvere un problema reale, ma solo a creare un consenso basato su percezioni artefatte, che un domani sarà ampliato con altra emotività e altre percezioni artefatte e altre misure per soddisfarle, è un effetto collaterale di cui molti non si rendono conto, ma di cui il politico di turno è perfettamente consapevole.

E hai voglia a dirlo, a raccontarlo, a provare a spiegarlo con i numeri. Chi non gioca con le regole basate sulle tre mosse, è fuori dall’arena. Che abbia ragione o torto nell’esprimere il dissenso, in questo momento non conta nemmeno: è come se parlasse un alfabeto diverso, incomprensibile ai più. Questa è la fase in cui siamo.
Per recuperare un dialogo, e cercare di recuperare la logica, bisogna quindi intanto ricostruire un alfabeto comune. Ma nessuno sa da dove partire.

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La fatica di essere migliori

L’altro giorno, su Facebook, sono incappata nel post di una persona che conosco. Parlava di esperienze lavorative e m’è venuto un colpo: quasi nulla di quello che aveva scritto era vero.  Sono rimasta a fissare lo schermo prima incredula e poi infuriata, trattenendomi dall’istinto di rispondere: avevo già le parole nei polpastrelli, in tre righe avrei potuto smontare non solo la retorica – stucchevole – ma soprattutto le falsità, rivelando la pochezza della persona. Un sacco di gente ne sarebbe stata contenta – a nessuno piace sentirsi preso in giro, magari anche da chi ti ha fatto parecchi brutti sgarri – e molti altri d’altronde devono avere avuto il mio stesso istinto. Ma nessuno  ha risposto niente.
Qualche giorno dopo, ripensandoci, ne sono fiera. Si trattava sì di bugie, ma per smentirle avrei dovuto gettarmi nel fango, abbassarmi a un livello che non voglio considerare, raccontando qualche retroscena. Soprattutto, avrei lasciato la persona alla mercé di un assetato gruppo di incazzosi feriti in cerca di rivalsa, con l’esplosione di una notevole quantità di rabbia e di attacchi di vario genere che – fin troppo facile prevederlo – sarebbero rapidamente diventati personali.  

Non rispondere, insomma, mi è sembrata la scelta più giusta, anche a costo di mandare giù un bel rospo. È stato faticoso, certamente, ma è una fatica che va fatta: per cercare di essere migliori. Non solo della persona in questione, ma soprattutto dei molti che da anni – e negli ultimi mesi ancora di più – vomitano sui social la propria bile, inquinando l’ambiente e il dibattito. C’è chi lo fa per sfinimento, magari perché la vita è stata dura. C’è chi lo fa perché è facile fare i bulli protetti dall’anonimato. C’è chi lo fa per ignoranza e chi perché nel gruppo si lascia andare agli istinti più bassi, alle cose più miserevoli. Penso a quei mentecatti che – quando Mattarella stoppò il primo tentativo di fare il governo con Savona  – commentarono cose truci come «Hanno ucciso il Mattarella sbagliato», o a quelli che per anni hanno dato della puttana a Laura Boldrini o a Elsa Fornero; quelle bestie che mettono in giro notizie false e le lanciano in aria come mangime a piccioni, in attesa solo che inizino a beccare. 

Qualcuno può pensare che sia cosa di poco conto, “roba da social”, ma sbaglia. Intanto perché sui social oggi si svolge gran parte del dibattito pubblico, nel bene e nel male: dal vicepremier Di Maio che ritwitta Jerri Calà (guardare per credere) a Salvini che ogni giorno bombarda Internet di foto, battute e annunci, al ritmo di uno ogni due ore (a proposito: ne preparo ogni sera una selezione per gli amici che bazzicano poco i social: se volete ricevere questo inconsueto “Album del giorno”, scrivetemi). E poi perché questo clima mefitico, i miasmi della rabbia e dei più bassi istinti, si stanno spargendo (da tempo) nel mondo fuori dal web, tirando fuori il peggio da ognuno. Sono circolate storie negli ultimi giorni di attacchi razzisti in spiaggia, un tizio che ha strappato dalle mani il bancomat di una ragazza nigeriana con successiva colluttazione e altre parecchio brutte; uno può anche scegliere di non crederci, ma io posso riferirne di due che so per certo, successe a persone che conosco. 
C’è chi dice che è cambiato il clima nel Paese; altri dicono che è sempre stato così. Io penso una cosa molto più banale: quando un certo tipo di linguaggio e di modalità espressiva vengono sdoganate dall’alto (e quindi in qualche modo, diretto e non, anche incoraggiate), allora chiunque si sente libero di essere la versione peggiore di se stesso. Di dire e di fare quello che magari ha sempre detto e fatto con pochi amici, ma contenendosi in pubblico ed evitando di riversarlo sugli altri: non per convinzione ma per una implicita accettazione della continenza, delle regole imposte dal contesto complessivo, dalla società, dagli standard acquisiti di decenza ed educazione. O anche solo per paura delle reazioni, o della vergogna. Ma se tutto salta – gli standard, la decenza, la vergogna -, se l’operazione di contenimento dall’alto viene a mancare, ecco che diventa legittimo essere la versione peggiori di se stessi. Peggio ancora, la versione peggiore di se stessi viene esaltata, in nome della presunta autenticità del popolo, della rivolta del basso contro l’alto (quali che siano), dei bagni di realtà.

In un clima così, rovesciare le cose è difficilissimo. Ma provare è obbligatorio. Con ogni mezzo, e in primis non essendo indulgenti con se stessi. Certe dinamiche si spezzano solo se – anche indirettamente – non vengono più avallate. Si tratta di un lavoro quotidiano, di un incessante monitoraggio di se stessi, di perdere tempo ad argomentare, ragionare, informare e informarsi. Non usavo così tanto Facebook da anni, ma di recente mi sforzo di tenere animato un dibattito su certi temi e di rispondere argomentando anche a quelli che vorrei mandare a quel paese. Spesso mi scoccio, a volte non mi riesce bene, talvolta vorrei poter essere libera di dire il peggio: ma la differenza tra chi mi piace e chi no è che i primi fanno la fatica di essere migliori. 

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