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La traversata del deserto

Passo un sacco di tempo a cercare di capire come diventare la persona che vorrei essere; a volte persino a provare a esserlo.
Con gli amici, quelli che considero famiglia, la chiamiamo “la traversata del deserto”; rende l’idea, salvo che non so esattamente dove finisce la sabbia, e inizio a credere che non finisca mai: succede solo che sei più attrezzato nell’aggirarti tra le dune.
La questione difficile, però, è definire cosa esattamente faccia parte della traversata del deserto: la psicoterapia ok, un buon punto di partenza, forse obbligato; lo yoga e la meditazione, certo; il silenzio, il respiro, il digiuno, lo sport; il combattere le aspettative senza smettere di sperare, l’attimo presente, il proprio ruolo nelle situazioni, lo sguardo allargato e l’occhio all’interno, eccetera. Qualcuno metterebbe nella lista la sospensione del giudizio ma io no, sono abbastanza onesta intellettualmente (smettere di raccontarsi storie su di sé: tappa tre o quattro della traversata) per sapere che non sono in grado di non giudicare: però ho imparato a cambiare idea, anche in fretta, a dire che ho sbagliato, a chiedere scusa.
Fin qui, comunque, siamo nel campo del lessico familiare a chiunque abbia intrapreso un percorso, un lavoro su di sé si dice in gergo, e ricordo che la prima volta che l’ho sentito dire con serietà ero una giovane donna senza troppa consapevolezza con un fidanzato di dieci anni e parecchia solidità più di me: l’idea sembrava promettente ma ero ancora nella fase in cui pensavo che si dicesse “lavorare su di sé” ma alla fine toccasse prevalentemente agli altri, e che in ogni caso lo strizzacervelli avrebbe risolto tutto solo per il fatto che mi sedevo sulla sua poltroncina per il corrispettivo di circa 3 euro al minuto. Dovevo  insomma ancora iniziare la traversata, 15 anni fa, e oggi provo un misto di tenerezza e pena per coetanei che sono ancora in quella fase, perché non solo non hanno la minima idea di quanto c’è da camminare, ma soprattutto non sano che prima o poi, volenti o nolenti, dovranno iniziare a farlo.
Dicevo, comunque, che ho sempre molti dubbi, agitati talvolta dalla pigrizia e altre dalla paura, su cosa rientri nel percorso: quali sono i confini del mio essere legittimata a lasciarmi andare, a non sforzarmi di essere il mio meglio possibile? Sono in treno alle 21 di una domenica con l’ultima copia dell’Economist in valigia, quella di cui nel mio mondo si è parlato allo sfinimento (The illiberal left) e che ho letto solo distrattamente nel sunto delle prime pagine: devo tirarla fuori o posso continuare ad ascoltare musica sciacqua cervello?
O forse dovrei infine iniziare l’audiolibro del Duexième Sexe, ché farebbe molto bene al mio francese, nonché  alla mia coscienza femminile e femminista: quanto sarò migliore dopo averlo ascoltato? Posso permettermi di rimandare? E quanto ancora posso rimandare una telefonata che non ho davvero voglia di fare, pur sapendo che l’altra persona la aspetta?  Molto peggio: quante volte posso ignorare il povero cristo che mi chiede un euro mentre io sto per spenderne 30 di cena, verosimilmente per la terza sera di fila, liquidandolo con un cenno della mano come se fosse una mosca di cui liberarsi, una seccatura umana? (E avrei il coraggio di fare quel gesto a tutti quelli che davvero mi sfiniscono con le loro menate, a quelli che vedo anche se non ne ho per nulla voglia, a quelli che conosco per lavoro? e quanto mi rende una persona orrenda già conoscere la risposta?)
Altre domande sparse, giusto per aumentare l’affanno: qual è il giusto compromesso tra la passione per il lavoro e le barriere necessarie a continuare a vivere?  E dove sta il confine tra il difendere le proprie idee con coraggio e non andare fuori dal gruppo? Come si dice a qualcuno che sei stanca dei suoi giochetti senza essere aggressiva, specie se l’altro magari nemmeno sa di farli? Ancora: quante idiozie posso pubblicare su Facebook prima di diventare come quelli che non tollero, sempre a rimirarsi nello specchio e a lucidarsi l’ego con la benevolenza e la considerazione altrui? E questo post, su questo blog che sta lì da 15 anni e su cui scrivo sempre più stancamente, a chi dovrebbe servire esattamente se non al mio di ego?
Potrei continuare – e deprimermi,  ché per quanto abbia camminato davanti c’è un oceano di sabbia, è evidente. Eppure, una delle cose che ho capito in questa eterna traversata è che la svolta arriva quando inizi a fartele, le domande. Il lavoro è tutto lì. Per le risposte c’è sempre il genio dei CCCP: Io sto bene, io sto male, io non so come stare. 

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Com’è bello

Qualche giorno fa è morto improvvisamente il padre di un amico. Era stato un tipo estremamente giovanile fino a pochissimo prima di andarsene, ma soprattutto era stato uno di quei padri ingombranti che in famiglia fanno parecchi casini: quelli che a vent’anni ti riempiono di rabbia e di vergogna; a trenta ti spaccano la testa, lo stomaco e, di certo, le storie; a quaranta inizi infine, se non a perdonare, quantomeno a comprendere. Un padre come il mio, insomma: dominante ma assente.
Mio padre l’ho racchiuso in questa definizione, emotiva e razionale, per anni: una faticosissima strategia di sopravvivenza, necessaria a superarlo. Eppure, vuoi l’età, la paura del Covid o la sofferenza della distanza, nell’ultimo anno con mio padre ho iniziato ad avere un rapporto via via più intenso: telefonate frequenti, weekend insieme, cene di famiglia. Poi è successo che la sua nuova moglie gli ha regalato un iPhone e lui ha imparato a usare whatsapp: una iattura per il resto del mondo – le chat coi genitori, i messaggi squinternati, le foto fuori fuoco – ma nel nostro caso una prova di normalità. Mi capita di scrivergli messaggi, quando so che andrò a trovarlo: Mi fai la pasta con le vongole? Ho voglia di pesce! Andiamo a vedere il nuovo Morandi? e leggere le risposte, che impiega un tempo eterno a digitare, mi fa sempre sorridere. 
Sono stata male nei giorni scorsi e oggi, a metà del pomeriggio, ero a lavorare, ho trovato una notifica: Come stai? Ricordati di prendere le medicine. Vedrai che domani sarà tutto passato.
Ho pensato com’è bello avere un padre, quanto mi è mancato, quanto me lo voglio godere.

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Essere minoranza

Io, cosa significhi essere minoranza, lo so da sempre.

Sono minoranza dalla nascita, quasi per statuto. Il mio nome non ha santi (né eroi), non è comune e non è nemmeno italiano, anche se io lo sono.

Sono minoranza nella mia famiglia, in cui tutti hanno studiato giurisprudenza, inclusi i parenti acquisiti, e io a cinque anni già impaginavo il giornalino della prima elementare, sapendo che quello avrei fatto — o almeno voluto fare — nella vita.

Ero minoranza alle elementari, unica non battezzata in una scuola di suore, la sola che mi aveva  preso a cinque anni.

Ero minoranza alle medie, quando i miei compagni ascoltavano gli 883 e io ero malata dei Guns N’ Roses e dei Nirvana, per lo sgomento dei miei.
(Mio padre stava guardando il Tg3Notte quando arrivò la notizia che Cobain si era suicidato. Passavo dalla sala per caso, a quell’ora ero già a letto. Scoppiai a piangere, inconsolabile. Mio padre mi gelò: «Cosa cazzo piangi che non lo conosci nemmeno?»)

Ero minoranza nel posto in cui sono nata, Chiavari, una cittadina deliziosa ancorata a routine e abitudini che già a 15 anni mi avevano fatto secca: infatti chiesi di poter andare a studiare in America e scappai. D’altronde, anche i miei erano minoranza, a loro modo: arrivati da Milano, dove erano arrivati da Torino, dove erano arrivati da Aosta, dove si erano conosciuti essendo uno siciliano, l’altra bergamasca. Finiti in un posto in cui la maggior parte degli abitanti è stanziale da generazioni, passandosi case, attività commerciali, espressioni dialettali.

Nell’ultimo decennio sono stata minoranza rifiutando diverse offerte di lavoro, nel momento in cui già il giornalismo era una crisi mostruosa (che sarebbe peggiorata), per paura di annoiarmi, a fare il mestiere così. Andando via da posti di lavoro fissi e incarichi tecnicamente allettanti, pur di sentirmi libera, e poi sentendomi quotidianamente in balia del mutuo, dei conti, delle fatture emesse, pagate, non incassate. Ma comunque meglio che all’altra maniera.

Sono stata minoranza quando mi ha chiamato una parlamentare nota, chiedendomi di lavorare per lei: per due giorni ho pianto, sapendo che accettare era per mille ragioni la cosa più sensata. Non me la sentivo di lavorare per questi, e ho detto no.

Sono stata minoranza altre centomila volte, e lo sono per natura, indole, testardaggine, orgoglio, stupidità, vanità.

Oggi sono minoranza insieme a un sacco di altra gente, ma in modo del tutto diverso. E spaventoso.

Lo sono ogni volta che vedo un tweet di Salvini e capisco cosa c’è dietro, come sta fregando la gente, come la gente ha voglia di farsi fregare. Lo sono quando penso a quelli delle Iene, con ribrezzo per le campagne che hanno fatto negli ultimi dieci anni, e mi rendo conto che hanno vinto loro, che i metodi sono i loro. Non importa che per me Nadia Toffa o Giarrusso non saranno mai giornalisti o scrittori: lo sono per chi li segue, e chi li segue è la maggior parte del Paese. 
Noi che stiamo a casa a imbarazzarci per Conte che tiene su un cartello con scritto #DecretoSalvini con l’aria di un ostaggio, ma senza la dignità per metterlo giù, siamo ultra minoranza: fuori dal nostro recinto per qualcuno è spettacolo, per altri è politica, per altri è normale.

Metaforicamente, siamo già in un ghetto: infatti ci chiamano élite, intellettuali, buonisti, sinistroidi e qualsiasi altra cosa, anche se magari facciamo fatica a far quadrare i conti, abbiamo votato i radicali e non abbiamo mai letto Guerra e Pace. 
Lo siamo perché i criteri che ci eravamo dati, i nostri metri di giudizio, le cose che avevamo imparato per affrontare il mondo, la vita e il lavoro non servono più. Sono superati, sono vecchi. Le nostre ragioni sono vane, perché si esprimono in lingue e sintassi che non sono più universali: anche se volessero, gli interlocutori non riuscirebbero a capirci.

Ero abituata a essere minoranza, ma ora è cambiato tutto. E a questo non ero preparata.

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Undressed, l’ecstasy della tivù

E così adesso c’è una casa. Fate finta che non sia passato un anno tra l’ultimo post e questo, un anno, sei mesi in un bilocale imprestato, tre in un circa monolocale che se fosse arrivato un giorno Salvini avrebbe subito invocato le ruspe scambiandolo per un campo rom, e parecchie notti qui e là.
Tirate una linea dritta che scavalchi appartamenti e mesi e mi avrete sul divano grigio – Ikea in via di estinzione, m’ha detto il commesso consigliandomi di comprare più fodere prima che escano di produzione: se ne vanno sempre i migliori – in questo delizioso sottotetto, di fronte alla tivù.
Ho comprato una televisione, sì: una smart tivù, per l’esattezza, di quelle che mentre guardi le partite – se hai capito come si fa – potresti anche schiacciare il pulsante e beccare gli speciali multimediali della Rai. Noi no, però. Noi la teniamo accesa come una specie di totem: le giriamo intorno come le scimmie di 2001, Odissea nello spazio, giochiamo con  il telecomando, fissiamo le immagini con genuina curiosità.
Non che sia la mia prima tivù, per essere onesti. Qualche anno fa avevo investito un centinaio d’euro in un modello da discount, che infatti si è rotto prontamente: negli ultimi due traslochi mi son portata dietro il catafalco solo perché non avevo ancora focalizzato dove buttarlo.
Questa funziona, invece, e prende una montagna di canali che devono essere nati nel frattempo, nell’era geologica in cui per noi c’era solo La7 in streaming: per esempio l’8 e il 9.
Ieri, saranno state le 23, stavamo facendo zapping come in una specie di incursione sociologica in mondi sconosciuti, e siamo finiti proprio sul Nove. Stavano presentando un programma nuovo, Undressed: grafica minimal e molto glam, set a costo zero, nessun presentatore e nemmeno voce in campo. Solo due tizi in un letto.
Dapprincipio non riuscivamo a crederci.
Il programma funziona così: due che non si conoscono si incontrano davanti a un letto. Si presentano brevemente, diciamo in un minuto e mezzo. Poi, seguendo le indicazioni su uno schermo dietro di loro, iniziano a spogliarsi. Lui sveste lei; lei sveste lui. Alla fine restano in mutande, uno di fronte all’altro. A questo punto devono infilarsi sotto alle lenzuola, ma a favore di telecamere – più sopra le lenzuola che sotto, in effetti – e iniziano a fare dei giochi. Attraverso lo schermo la produzione dà le indicazioni: guardatevi negli occhi per 30 secondi, fate qualcosa per rilassarvi, mangiate insieme il cornetto che trovate a fianco del letto, baciatevi. Nel frattempo, con intervalli da reality, ciascuno dei due viene ripreso mentre commenta l’altro: fisicamente mi piace, ha un viso dolce, sessualmente mi attizza e banalità discorrendo. Alla fine di tutto – cinque minuti per chi guarda, più o meno, ma potrei sbagliare: ero sconvolta – devono dire se vogliono fermarsi nel letto seminudi con l’altro o meno; e si immagina non a leggere La critica della ragion pura.
Non è poi nemmeno che ci sia bisogno di immaginarlo: tutto è esplicito, dichiarato, routinario. Gente che va in televisione, spoglia uno che non ha mai visto, si fa leccare davanti alle telecamere, decide pubblicamente di restare nel letto per fare sesso, o almeno per far pensare che lo farà.
Mentre correggevo a voce alta i tempi verbali di questi mentecatti – probabilmente il mio modo inconsapevole di riportare la visione a una realtà dalle categorie per me intelligibili – mi sono chiesta prima se questi non si vergognassero: domani torneranno sul posto di lavoro, i colleghi li riconosceranno, i loro genitori li avranno visti, possibile che uno non si faccia due domande prima di farsi cospargere di panna davanti a un obiettivo?
Poi sono chiesta se mio nipotino di dieci anni avesse mai visto il programma, se rischi di vederlo – ovviamente sì – e che effetti avrà questa roba su di lui e sulla sua generazione. Una volta buttato giù il muro che separa l’intimità dalla pubblicità, trasformato l’esibizionismo in mercato, azzerata la capacità di distinguere e apprezzare – gli incontri, il sesso, la scoperta – come si muoveranno questi ragazzini nel mondo? Che confini e limiti si daranno e riconosceranno? Che senso dell’adeguato, del bello, della scoperta?
Infine, e soprattutto, ho pensato alla Magnolia – la società che produce lo show – e alle responsabilità che ha nel proporre cose di questo genere. Chissà se qualcuno, tra gli autori convinti di aver avuto l’idea del secolo – hey capo, costo zero e se lo guardano tutti! –  ci avrà pensato a cosa sta mettendo in giro; se capisca di essere, concedete il paragone forte, un po’ come gli spacciatori che vendono ecstasi tagliata male, di quella che magari si rischia moltissimo per mezza pasticca.
Qui non si muore; non letteralmente, certo. Ma è del tutto evidente che muore una certa consapevolezza, che si anestetizzano il senso del limite, della decenza, dell’etica. E non ci si può appellare alla presunta libertà, di mercato, del pensiero e dei gusti: perché la libertà finisce nella sproporzione delle posizioni dominanti, e gli effetti del medium tivù in 60 anni di evoluzione sono certificati. Dubito che il signor Magnolia, che con gli effetti della televisione si è riempito il portafoglio, non lo sappia.
E, insomma, mi sono chiesta se il garante abbia fatto un esposto, se qualcuno avesse parlato di Undresses sui giornali, e non come fenomeno di costume, che è sempre un metodo facile per lavarsi la coscienza.
Non ho trovato nulla, e mi è venuta in mente Rehab, la canzone di Amy Winehouse: dovremmo andare a farci curare, and we say no, no, no.

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Rischio d’impresa

Qualcuno ogni tanto mi chiede cosa fai da quando hai dato le dimissioni. La risposta figa è: «Scrivo un libro». Quella onesta è: «Mando tra le 50 e le 100 mail al giorno, passo 12 ore al giorno almeno davanti a uno schermo a leggere cose, ne programmo altre che erodono metà del mio micro-cumulo di risparmi e chissà se avranno un qualsiasi ritorno».
Tecnicamente, mi ha ricordato mio fratello, si chiama rischio d’impresa.
Credo che i nomi tecnici siano stati inventati per fare sentire un po’ meno peggio le persone.

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San Paolo/Dispacci #4

Credo che tecnicamente questo si chiami usare le cose fino in fondo.
Non tecnicamente, invece, è essere grati di ogni passo fatto.

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L’unico funerale al quale mi dispiace non poter andare

 

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Emilio Marchi

Paolo ha girato un piccolo documentario su Emilio Marchi.
Emilio, 70 anni, è un italo-argentino che nel 1974 è stato imprigionato a Buenos Aires per aver dato ospitalità a un dissidente.
Lo hanno tenuto dentro per tre anni, lo hanno picchiato, torturato, affamato, umiliato. Poi lo hanno costretto all’esilio.
Emilio è venuto in Italia, a Padova, dove aveva qualche familiare, e si è mantenuto vendendo i quadri che dipingeva. Nel 1983, alla caduta del regime, ha deciso di rientrare.
Gli ho chiesto perché. “Ogni esiliato ha dentro un misto di rabbia feroce e desiderio struggente di tornare”, mi ha detto.
Ha fondato una Ong per aiutare i bambini, Jardin de los ninos. “Ce n’erano centinaia per le strade, sporchi, affamati, mezzi morti di fame”.
Trenta anni dopo, aiuta ancora quei bambini, e le loro madri, e chiunque abbia bisogno. “Ma non è assistenzialismo: perché le persone devono essere spronate a imparare a lavorare, a mantenersi, a essere autosufficienti, ad avere una dignità”.
Paolo ha mostrato un trailer del lavoro alla platea di Padova, molto applaudito. Nessuno ha chiesto a Emilio, in sala, alto e magro come un stelo, visibilmente turbato e rannicchiato in se stesso come un bimbo, quale fosse il trait d’union: dove trova un uomo torturato e quasi ammazzato da una dittatura la voglia di tornare nel Paese e aiutare i più deboli.
La risposta è banale, forse. Ma è la forza straordinaria che nonostante tutto fa ancora girare il mondo.

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Poesie nuove

La mia risibile vita culturale, impantanata da un paio d’anni tra le sentinelle del Medio Oriente e le secche affettive della Darsena, può fregiarsi di due-dico-due esperienze da raccontare.
Giovedì sono andata al Macao – il grattacielo dei Ligresti occupato la settimana scorsa: finché c’è vita c’è speranza – a vedere Guido Catalano: un po’ poeta un po’ cabaretista un po’ conversatore divino.
Catalano è un torinese 40enne con due musicisti genovesi a metà tra Tom Waits e Pancho Villa: pungenti, accoglienti, ironici il giusto.
Il titolo del suo ultimo libro è Ti amo ma posso spiegarti, il che chiarisce perché lo abbia trovato perfetto dopo qualche ora di scambi di vedute con il mio ex.
Mi sento di consigliarlo caldamente, anche chi non ha ex recenti né passati: basta avere un cervello.
Venerdì, invece, ho ascoltato il monologo di due ore – ma pare mezza – di Ascanio Celestini in Pro Patria. Su Celestini c’è poco da dire: è un attore stupefacente. E un pensatore che ci vuole, magari in alcune parti vagamente vetero-retorico (a me piace così, a dire il vero, ma mi hanno insegnato a essere intellettualmente onesta: che palle), della sinistra che sciorina formule vecchio stampo.
O almeno questo pensavo, mentre raccontava con la rincorsa, inscenando un detenuto che immagina un dialogo con Mazzini e ricostruisce la storia del Paese e dei suoi risorgimenti (più d’uno), lo stato attuale delle carceri. Mi dicevo: facile, sì, dire che è inumano, ma la punizione, la pena, il dolore, i soldi per mantenere i carcerati, e perché dobbiamo farcene carico noi, e insomma.
Poi mi è venuto in mente che forse è proprio questo il limite del pensiero moderno e certamente di molta sinistra: non riuscire più a pensare in grande, svincolati dai numeri e dalla razionalità quotidiana. A fare il salto verso un concetto più alto e umano e utopico, quindi a cui tendere.
Ecco a cosa serve andare a vedere Ascanio Celestini. A ritrovare una direzione. Alla modica cifra di 14 euro: altro che finanziamento ai partiti.

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Total eclipse of the head (oppure due donne allo sbando in una giornata qualunque)

A un certo punto ieri volavano talmente tanti stracci tra il mio Io, Es, SuperIo e quegli altri brutti ceffi che si agitano lì dentro che ho pensato di fare l’unica cosa intelligente che sia in grado di fare: darmela a gambe. Non sola, bensì con una delle due persone al mondo che conosce e rispetta tutta la mia banda di energumeni interiori, e per qualche ora riesce anche a fargli fare pace (l’altra, purtroppo, abita a troppe ore di volo da qua).
Jessi, partiamo stasera?
Carico gli sci su un taxi e arrivo. Tanto la valigia non l’ho ancora disfatta dall’ultima volta.

(A vivere in un monolocale, in effetti, si impara a razionalizzare gli spazi).
Poi il direttore editoriale ha deciso di farmi un mazzo quadrato perché non stavo seguendo la conferenza stampa di Monti – e sì che era tanto, tanto, tanto interessante – l’Europa stava implodendo e tutti gli aspiranti stagisti del mondo avevano inviato un Cv da leggere supplicando di farlo in fretta e, insomma, ci è toccato posticipare la partenza all’indomani ed è finita che alle 22 occupavamo un tavolo d’angolo nella pizzeria dove solo la notte precedente avevo ingollato lacrime-quattro-stagioni durante una conversazione amorosa che Woody Allen potrebbe comprarmi i diritti.
Comunque, dicevo. Abbiamo puntato la sveglia alle sei e mezza, con l’abbigliamento tecnico già pronto, la voglia di montagna a rinfrancare l’umore e quella strepitosa giacca da sci di Pucci a ricordarci che due anni prima, in analoghe circostanze, non avevamo rischiato di morire sotto la peggiore tempesta di neve che il Monginevro ricordi per niente (bisognava scegliere tra comprare la giacca o le catene e, sul serio, non c’era davvero partita).
Alle sette e mezza imboccavamo con sicurezza la direzione autogrill: ogni buon viaggio inizia con una abbondante colazione, come universalmente noto.
Peccato che siamo arrivate che stava giusto iniziando il radiogiornale e, siccome una parte di me non reagisce ai miei stessi comandi, ho pensato bene di ascoltarlo interamente prima di entrare. Alla terza notizia, più o meno, un mastodontico autobus a due piani del gruppo vacanze ragionieri-del-Veneto ha oscurato la linea dell’orizzonte, riversando il suo improbabile carico di umanità alle case del bar.
Così, dopo rapida ricognizione delle meravigliose, fragranti e inviolate brioche appena sfornate, ci siamo mestamente rimesse in macchina verso il successivo punto di ristoro. Non prima, comunque, di aver perso il mio cappello di cachemire marrone, il terzo in due inverni, per la ragguardevole cifra di 240 euro complessivi, giusto per non lasciare la ragioneria solo agli altri.
Quaranta chilometri oltre, quando il sole era almeno abbastanza tenue da permettermi di calcare enormi occhiali da sole senza troppo imbarazzo, un autogrill ha allietato il percorso. Stavo perfezionando il parcheggio, avendo preso l’ingresso in contromano – forse in effetti era ancora troppo buio per gli occhiali da sole – quando un altro autobus in stile pentole-e-gita-in-Lombardia si è parato proprio di fianco; con il guizzo di un salmone che risale la corrente avversa la Jessi è sgusciata fuori dall’abitacolo e si è letteralmente messa a correre abbattendo qualsiasi cosa le si parasse di fronte per guadagnare il primo posto alla cassa: trenta secondi di puro agonismo da colazione, e dire che ancora non aveva indossato i pantaloni da sci di foggia militare che le sono valsi il glorioso soprannome di P.A. Baracus.

Finalmente, due ore dopo, stavamo viaggiando tra strette vallate che avrebbero dovuto essere innevate e invece di neve nemmeno l’ombra – ma noi ci sforzavamo di far finta di niente per non rimanerci male. Avevamo già rispolverato tutto il repertorio fiorellamannoiesco e vascorossiano dei nostri viaggi della speranza, quando un cd dimenticato nella selva dei sedili posteriori ci ha aperto un universo.

Total eclipse of the heart. Bonnie Tyler. 1983.
Vetri che tremano. Ugule roventi. Balletti. Commozione. Risate. Catarsi. La macchina che sbanda.
Once upon a time I was falling in love, now I’m just falling apart.
Acuti. Lacrime. Applausi a scena aperta. Bene, brave, bis.
Alle 11, con un’ora di ritardo sulla tabella di marcia e Bonnie che aveva ululato Tomorrow is gonna start tonight almeno 15 volte, eccoci arrivate all’ovovia.
Centimetri di neve: zero.

Ehm, Jes, magari saliamo ancora un goccio?
Eh, sì, meglio.
Non è che ci sia tanta neve.
No, ecco, tanta tanta no, direi. Ma otto impianti sono aperti, l’ho letto.
Sì sì certo, saliamo.

Saliamo.
Mezz’ora dopo stavo parcheggiando la macchina in mezzo a uno sterrato di fango di fronte alla biglietteria del ghiacciaio, intorno alla quale si muovevano goffi energumeni vestiti da sci in modo quantomeno inopportuno, visto il paesaggio circostante: più o meno come noi, insomma, ma senza la giacca di Pucci, che in effetti fa sempre la differenza.

Quindi?
Chiediamo?
Ehm, signora scusi ma quante piste ci sono aperte, a parte la baby?
Tre.
Ah.
E si può fare il pomeridiano?
No.
Ah.
E i punti quanto costano?

Quanto il giornaliero.
Ah.
Scusi ma la tavoletta di cioccolato me la regala anche se non compro lo skipass?

No, questo la Jessi non mi ha permesso di dirlo, visto che la signora era così cordiale.
In compenso, P.A. Baracus per sollevarci l’umore ha subito sfoderato il piano B, di una semplicità abbacinante. Andiamo in un ristorante e ordiniamo tutto il menù. Ma tutto proprio. Voglio mangiare tantissimo. Praticamente una versione appena un po’ edulcorata di Die Hard.
Comunque ho appoggiato il piano. Tanto sai con tutto questo moto quanto bruciamo?
Non avevo ancora messo la retromarcia che P.A. stava già consultando ferocemente la guida ristoranti dell’iPhone.
Gea, non possiamo sbagliare. Non possiamo. Voglio mangiare benissimo, senza badare a spese.
E così ci siamo rimesse in cammino, con Totale eclipse of the heart a ricordarci perché ci trovassimo lì.

Senti questo menù: gnocchi verdi del cuoco su un letto di cipolla ricoperti di fontina.
Non male. Poi?
No no ascolta la recensione: Ambiente rustico ma dosi abbondanti – dosi abbondanti, hai capito? questo è importante – ottima scelta di selvaggina
Ma io la carne non la mangio
Non rompere i coglioni con sta cazzata, senti qui: ragù di cervo e polpette di cavallo su fonduta di formaggi tipici.
Jes, scusa, abbassa un attimo la radio che ho sentito un rumore strano.
Torta di cioccolato assolutamente consigliata e una selezione di amari…
Jessi, si è accesa una spia…
…Conto contenuto rispetto alla qualità, 10 euro per i primi, 13 per i secondi…
Jessi, aspetta che leggo cosa significa la spia..
….Ottimi anche gli amari della casa, da provare la grappa...
Ecco, lo schermo dice M-o-t-o-r-e i-n-a-v-a-r-i-a…

Cosa?
Motore in avaria…
MOTORE IN AVARIA!

Tre minuti esatti di risarella incontrollata. Sgomento. Almeno due incidenti mortali sfiorati.
E nessuna variazione al piano B.

Proviamo ad arrivare fino al ristorante.
Dici?
Dico.
Occhei.

Nei pressi della baita, ci eravamo già in effetti dimenticate della spia, diventata rumore di fondo. E dopo venti minuti, avevamo ordinato – esattamente come da programma – tutto il menù. Ma solo dopo una mia lunga tiritera sugli effetti nefasti della globalizzazione, per cui quella fantastica bottiglia di liquore sul bancone – Davvero è l’ultima? Me la metta subito via, la compro di sicuro – così tipico della zona e che avrei regalato a qualcuno a Natale magari poi mia cognata l’avrebbe trovata dal droghiere sotto casa, perché è così che si perde il senso della tradizione locale.
Alla seconda portata – un conglomerato di formaggio e cipolla e gnocchi di patate e burro – il mio stomaco ha iniziato a dare segni di cedimento. Ma abbiamo proseguito fino alla terza. E alla quarta.
Dopo la torta budino di cioccolato, un conato mi ha attraversato lo stomaco e fulminato sul tavolo.

Mi sa che devo vomitare Jessi.
Vai in bagno che se no viene da vomitare anche a me.
Sì bè non pensavo di vomitare sul tavolo.

Sto malissimo.
In bagno non c’è la carta. Andiamocene. Penso che potrei morire fra tre minuti.
Occhei. Il liquore lo prendi?
Certo, lo regalo a qualcuno per Natale.
Gea, ma il pistacchio non è roba di montagna.
Cazzo, hai ragione.

In effetti, mentre la signora mi incartava l’ultima bottiglia rimasta e l’etichetta rivelava Pesaro Urbino come provenienza, constatavo amaramente che la globalizzazione mi aveva fregato ancora una volta. Ma ormai era troppo tardi ed ero troppo sfinita dal cibo per tentare di resistere.
Così siamo rotolate fuori dal ristorante con il sacchetto contenente il liquore truffaldino e ci siamo sedute su un muretto a secco, esanimi.

Credo che dovremmo camminare, altrimenti inizio a vomitare.
Non so se ci riesco.
Su, sforziamoci.
Ma un pisolino in macchina invece?

Tanto, ovviamente, la macchina non ripartiva: c’era sempre quel problemino di avaria al motore. E io nel frattempo avevo perso la sensibilità della frizione – oltre che delle papille gustative e del cervello – e quasi bruciato il motorino d’avviamento.
Ma a Milano ci siamo ritornate ugualmente, dopo un po’ di tentativi. Perché ignorare le spie, su un’auto o nei rapporti, è un’arte: basta essere ostinati abbastanza. E sperare che tutto esploda quando tu sei già al riparo da un’altra parte.

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