Total eclipse of the head (oppure due donne allo sbando in una giornata qualunque)


A un certo punto ieri volavano talmente tanti stracci tra il mio Io, Es, SuperIo e quegli altri brutti ceffi che si agitano lì dentro che ho pensato di fare l’unica cosa intelligente che sia in grado di fare: darmela a gambe. Non sola, bensì con una delle due persone al mondo che conosce e rispetta tutta la mia banda di energumeni interiori, e per qualche ora riesce anche a fargli fare pace (l’altra, purtroppo, abita a troppe ore di volo da qua).
Jessi, partiamo stasera?
Carico gli sci su un taxi e arrivo. Tanto la valigia non l’ho ancora disfatta dall’ultima volta.

(A vivere in un monolocale, in effetti, si impara a razionalizzare gli spazi).
Poi il direttore editoriale ha deciso di farmi un mazzo quadrato perché non stavo seguendo la conferenza stampa di Monti – e sì che era tanto, tanto, tanto interessante – l’Europa stava implodendo e tutti gli aspiranti stagisti del mondo avevano inviato un Cv da leggere supplicando di farlo in fretta e, insomma, ci è toccato posticipare la partenza all’indomani ed è finita che alle 22 occupavamo un tavolo d’angolo nella pizzeria dove solo la notte precedente avevo ingollato lacrime-quattro-stagioni durante una conversazione amorosa che Woody Allen potrebbe comprarmi i diritti.
Comunque, dicevo. Abbiamo puntato la sveglia alle sei e mezza, con l’abbigliamento tecnico già pronto, la voglia di montagna a rinfrancare l’umore e quella strepitosa giacca da sci di Pucci a ricordarci che due anni prima, in analoghe circostanze, non avevamo rischiato di morire sotto la peggiore tempesta di neve che il Monginevro ricordi per niente (bisognava scegliere tra comprare la giacca o le catene e, sul serio, non c’era davvero partita).
Alle sette e mezza imboccavamo con sicurezza la direzione autogrill: ogni buon viaggio inizia con una abbondante colazione, come universalmente noto.
Peccato che siamo arrivate che stava giusto iniziando il radiogiornale e, siccome una parte di me non reagisce ai miei stessi comandi, ho pensato bene di ascoltarlo interamente prima di entrare. Alla terza notizia, più o meno, un mastodontico autobus a due piani del gruppo vacanze ragionieri-del-Veneto ha oscurato la linea dell’orizzonte, riversando il suo improbabile carico di umanità alle case del bar.
Così, dopo rapida ricognizione delle meravigliose, fragranti e inviolate brioche appena sfornate, ci siamo mestamente rimesse in macchina verso il successivo punto di ristoro. Non prima, comunque, di aver perso il mio cappello di cachemire marrone, il terzo in due inverni, per la ragguardevole cifra di 240 euro complessivi, giusto per non lasciare la ragioneria solo agli altri.
Quaranta chilometri oltre, quando il sole era almeno abbastanza tenue da permettermi di calcare enormi occhiali da sole senza troppo imbarazzo, un autogrill ha allietato il percorso. Stavo perfezionando il parcheggio, avendo preso l’ingresso in contromano – forse in effetti era ancora troppo buio per gli occhiali da sole – quando un altro autobus in stile pentole-e-gita-in-Lombardia si è parato proprio di fianco; con il guizzo di un salmone che risale la corrente avversa la Jessi è sgusciata fuori dall’abitacolo e si è letteralmente messa a correre abbattendo qualsiasi cosa le si parasse di fronte per guadagnare il primo posto alla cassa: trenta secondi di puro agonismo da colazione, e dire che ancora non aveva indossato i pantaloni da sci di foggia militare che le sono valsi il glorioso soprannome di P.A. Baracus.

Finalmente, due ore dopo, stavamo viaggiando tra strette vallate che avrebbero dovuto essere innevate e invece di neve nemmeno l’ombra – ma noi ci sforzavamo di far finta di niente per non rimanerci male. Avevamo già rispolverato tutto il repertorio fiorellamannoiesco e vascorossiano dei nostri viaggi della speranza, quando un cd dimenticato nella selva dei sedili posteriori ci ha aperto un universo.

Total eclipse of the heart. Bonnie Tyler. 1983.
Vetri che tremano. Ugule roventi. Balletti. Commozione. Risate. Catarsi. La macchina che sbanda.
Once upon a time I was falling in love, now I’m just falling apart.
Acuti. Lacrime. Applausi a scena aperta. Bene, brave, bis.
Alle 11, con un’ora di ritardo sulla tabella di marcia e Bonnie che aveva ululato Tomorrow is gonna start tonight almeno 15 volte, eccoci arrivate all’ovovia.
Centimetri di neve: zero.

Ehm, Jes, magari saliamo ancora un goccio?
Eh, sì, meglio.
Non è che ci sia tanta neve.
No, ecco, tanta tanta no, direi. Ma otto impianti sono aperti, l’ho letto.
Sì sì certo, saliamo.

Saliamo.
Mezz’ora dopo stavo parcheggiando la macchina in mezzo a uno sterrato di fango di fronte alla biglietteria del ghiacciaio, intorno alla quale si muovevano goffi energumeni vestiti da sci in modo quantomeno inopportuno, visto il paesaggio circostante: più o meno come noi, insomma, ma senza la giacca di Pucci, che in effetti fa sempre la differenza.

Quindi?
Chiediamo?
Ehm, signora scusi ma quante piste ci sono aperte, a parte la baby?
Tre.
Ah.
E si può fare il pomeridiano?
No.
Ah.
E i punti quanto costano?

Quanto il giornaliero.
Ah.
Scusi ma la tavoletta di cioccolato me la regala anche se non compro lo skipass?

No, questo la Jessi non mi ha permesso di dirlo, visto che la signora era così cordiale.
In compenso, P.A. Baracus per sollevarci l’umore ha subito sfoderato il piano B, di una semplicità abbacinante. Andiamo in un ristorante e ordiniamo tutto il menù. Ma tutto proprio. Voglio mangiare tantissimo. Praticamente una versione appena un po’ edulcorata di Die Hard.
Comunque ho appoggiato il piano. Tanto sai con tutto questo moto quanto bruciamo?
Non avevo ancora messo la retromarcia che P.A. stava già consultando ferocemente la guida ristoranti dell’iPhone.
Gea, non possiamo sbagliare. Non possiamo. Voglio mangiare benissimo, senza badare a spese.
E così ci siamo rimesse in cammino, con Totale eclipse of the heart a ricordarci perché ci trovassimo lì.

Senti questo menù: gnocchi verdi del cuoco su un letto di cipolla ricoperti di fontina.
Non male. Poi?
No no ascolta la recensione: Ambiente rustico ma dosi abbondanti – dosi abbondanti, hai capito? questo è importante – ottima scelta di selvaggina
Ma io la carne non la mangio
Non rompere i coglioni con sta cazzata, senti qui: ragù di cervo e polpette di cavallo su fonduta di formaggi tipici.
Jes, scusa, abbassa un attimo la radio che ho sentito un rumore strano.
Torta di cioccolato assolutamente consigliata e una selezione di amari…
Jessi, si è accesa una spia…
…Conto contenuto rispetto alla qualità, 10 euro per i primi, 13 per i secondi…
Jessi, aspetta che leggo cosa significa la spia..
….Ottimi anche gli amari della casa, da provare la grappa...
Ecco, lo schermo dice M-o-t-o-r-e i-n-a-v-a-r-i-a…

Cosa?
Motore in avaria…
MOTORE IN AVARIA!

Tre minuti esatti di risarella incontrollata. Sgomento. Almeno due incidenti mortali sfiorati.
E nessuna variazione al piano B.

Proviamo ad arrivare fino al ristorante.
Dici?
Dico.
Occhei.

Nei pressi della baita, ci eravamo già in effetti dimenticate della spia, diventata rumore di fondo. E dopo venti minuti, avevamo ordinato – esattamente come da programma – tutto il menù. Ma solo dopo una mia lunga tiritera sugli effetti nefasti della globalizzazione, per cui quella fantastica bottiglia di liquore sul bancone – Davvero è l’ultima? Me la metta subito via, la compro di sicuro – così tipico della zona e che avrei regalato a qualcuno a Natale magari poi mia cognata l’avrebbe trovata dal droghiere sotto casa, perché è così che si perde il senso della tradizione locale.
Alla seconda portata – un conglomerato di formaggio e cipolla e gnocchi di patate e burro – il mio stomaco ha iniziato a dare segni di cedimento. Ma abbiamo proseguito fino alla terza. E alla quarta.
Dopo la torta budino di cioccolato, un conato mi ha attraversato lo stomaco e fulminato sul tavolo.

Mi sa che devo vomitare Jessi.
Vai in bagno che se no viene da vomitare anche a me.
Sì bè non pensavo di vomitare sul tavolo.

Sto malissimo.
In bagno non c’è la carta. Andiamocene. Penso che potrei morire fra tre minuti.
Occhei. Il liquore lo prendi?
Certo, lo regalo a qualcuno per Natale.
Gea, ma il pistacchio non è roba di montagna.
Cazzo, hai ragione.

In effetti, mentre la signora mi incartava l’ultima bottiglia rimasta e l’etichetta rivelava Pesaro Urbino come provenienza, constatavo amaramente che la globalizzazione mi aveva fregato ancora una volta. Ma ormai era troppo tardi ed ero troppo sfinita dal cibo per tentare di resistere.
Così siamo rotolate fuori dal ristorante con il sacchetto contenente il liquore truffaldino e ci siamo sedute su un muretto a secco, esanimi.

Credo che dovremmo camminare, altrimenti inizio a vomitare.
Non so se ci riesco.
Su, sforziamoci.
Ma un pisolino in macchina invece?

Tanto, ovviamente, la macchina non ripartiva: c’era sempre quel problemino di avaria al motore. E io nel frattempo avevo perso la sensibilità della frizione – oltre che delle papille gustative e del cervello – e quasi bruciato il motorino d’avviamento.
Ma a Milano ci siamo ritornate ugualmente, dopo un po’ di tentativi. Perché ignorare le spie, su un’auto o nei rapporti, è un’arte: basta essere ostinati abbastanza. E sperare che tutto esploda quando tu sei già al riparo da un’altra parte.

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