Non ci resta che Insorgiamo

Qualcuno si è lamentato che nel 2023 non ho fatto il consueto post di fine anno (Marco, grazie: è incredibile che ti ricordi ancora di leggere questo blog una volta all’anno, cioè più di quanto effettivamente ci scriva), e in effetti è vero: non avevo alcuna riflessione buona da fare. Per gli altri, o per me stessa. Il 2023, ho dovuto constatare con una certa amarezza, è stato per me un anno veramente horribilis, per ragioni personali e non. Per ragioni, direi, che mi legano al discorso pubblico in cui ho scelto di stare, in cui sento il dovere di stare; che riguardano il mondo in cui viviamo, di cui non basta più dire stancamente “è impazzito”, perché, benché condivida tutta la stanchezza, è invece un mondo lucidissimo e nettissimo nelle scelte che fa. Il termine mondo è certo largamente impreciso: parlo di Stati, di istituzioni politiche, di chi fa le politiche, di chi le commenta, di chi ne è governato. Parlo di soggetti terzi, ma anche di amici, di famiglie, di conoscenti. Parlo della difficoltà a non farsi schiacciare dalla propaganda, parlo della difficoltà a mantenere un’autonomia di giudizio, parlo della dinamica della formazione delle opinioni, in questo mondo in cui la scelta alla base è quasi sempre stare coi forti e non coi deboli; opinioni viziate, poco informate, basate su luoghi comuni e accettazione di immutabilità,  “è così”, “non ci si può fare niente”, “non si può dire”. Opinioni che diventano il terreno su cui si prendono e impongono decisioni, sulla cui base poi si giudicano e sanzionano gli inadempienti, in un circolo vizioso che sembra non lasciare scampo, e a me personalmente fa male nel profondo. Perché non è il mondo in cui voglio vivere. 

E quindi, diciamolo subito sempre per il solitario, affezionato lettore, la canzone del 2023 era quasi una scelta obbligata: I fought the Law. D’altronde, non c’è niente che abbia ascoltato quanto i Clash l’anno scorso, invidiando in maniera struggente i tempi in cui potevi entrare in un posto e sentirli suonare, e ritrovarti in quella comunità, in quella lotta che aveva visto in anticipo l’orrore che stavamo costruendo, e che i ruggenti anni Novanta avrebbero consacrato come nuova cornice del sistema. Come sistema stesso.
Quel senso di comunità l’ho ritrovato, pochi giorni fa, nel Capodanno che abbiamo celebrato alla ex GKN, fuori da una fabbrica occupata da due anni e mezzo, trasformata dalla tenacia, dalla forza e dalla consapevolezza del Collettivo nel migliore laboratorio per costruire qualcosa di diverso, sulla base di esperienze di partecipazione e di condivisione, di lotta giusta, dura, onesta contro chi pensa che sia normale licenziarti via whatsapp in piena estate, e poi sparire nelle nebbie di un board meeting, senza mai rendere conto. Di chi non ha capito che la violenza è anche quella che viene esercitata contro le vite dei lavoratori che di colpo sono privati di salario, dignità, libertà. Mi pare un punto centrale: non si fa che sentire critiche alla violenza sui social network (esiste, confermo), o nei cortei quando viene rotta una vetrina (se ne parla meno quando la polizia carica gli studenti, i docenti, i manifestanti in genere); ma la violenza esercitata sulle persone, sui lavoratori, sui migranti, sugli indigenti a cui vengono tolti tutti gli aiuti, la riconosciamo o no? 

La notte di Capodanno, alla ex GKN, Dario Salvetti ha fatto il discorso politico più emozionante che mi sia capitato di ascoltare in un sacco di tempo: leggetevelo, è qui. Ci vogliono cinque minuti, e bastano a capire cosa dovrebbe essere e dire la politica. Invece l’altra sera non c’era nessuno volto noto di opposizione e/o maggioranza a testimoniare vicinanza agli operai: eravamo 3 mila persone, tra cui qualche giornalista, qualche intellettuale noto, docenti universitari, i loro studenti, persone arrivate dall’estero, ma non i decision maker che, da tempo, avrebbero potuto cambiare il corso delle cose. 
Le cose cambieranno lo stesso, forse, spero, perché quella lotta ha contagiato una parte del Paese e ha segnato una strada. Ma la sfida è che diventi un percorso comune, che le istanze di cui si fa portavoce si allarghino e diventino patrimonio condiviso: possibile che tutti blaterino di valori e poi si consenta a qualcuno di licenziare via whatsapp o di tagliere la sanità, cioè in parole più concrete si decida scientemente di privare le persone di cure spesso essenziali? Si decida, cioè, di aggravare la loro condizione? E perché, se non per favorire i privati, se non qualcuno in specifico certamente un mondo, un sistema, una cornice di rapporti di forza?

Ecco, lo vedete perché non volevo scrivere? Adesso siete amareggiati anche voi. E, se così fosse, sarebbe giusto. Credo che l’unico modo per resistere sia convogliare questa amarezza nella consapevolezza di quello che non è accettabile e che va respinto, anche se a volte può significare non essere compresi, essere lasciati soli o scegliere volontariamente di allontanarsi. 
Il motto del 2024, che i lavoratori GKN hanno trasformato da tempo in una chiamata popolare, è INSORGIAMO. Non è mai stato così importante, da quando io ricordi. Almeno non per me. 

 

 

(1 gennaio 2024, pochi minuti dopo la mezzanotte, Campi Bisenzio)

P.S. Alcune di queste cose le ho scritte, articolandole diversamente ed entrando più nel merito, in questo thread. Prima o poi o farò diventare anche un post, ma se volete leggerlo, intanto…

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L’amore è tutto qui

Alla fine è passato anche Natale, e mi si scioglie la penna. Per una serie di ragioni confusamente intrecciate, non riesco mai a fare il bilancio dell’anno prima di Natale, come se questi due giorni concentrati di famiglia, cibo, affetto improvviso, affetto sottratto e sorprese collegate fossero in qualche modo una cartina di tornasole di tutto il resto. Della mia tenuta mentale, in primis; ma anche dell’evolversi dei rapporti, delle cose che avrei voluto, di quelle che son arrivate, di come le ho accolte.
Prima sorpresa: sono stata bene. Erano anni che lamentavo la mancanza di pensieri intorno a me, io che passo le giornate a decidere cosa regalare alle persone a cui voglio bene, in ogni occasione, cosa scrivere nel biglietto collegato, quando distribuire il dono, cosa dire per mascherare l’imbarazzo (già, ci si può imbarazzare a manifestarsi premurosi, attenti, amorosi: e chissà se è solo per insicurezza o perché è un mondo in cui l’ingenuità spesso è punita severamente). Quest’anno ho ricevuto tanti regali quanti forse non mi succedeva dall’infanzia: persino troppi, considerato che passo la metà del mio tempo a lamentarmi di eccessi consumeristici di sorta. Ma il fatto è che ho ricevuto oggetti pensati, da persone inaspettate, da chi non aveva alcuna obbligazione a suonarmi il campanello con in mano un pacchetto, da chi mi ha fatto trovare in mail un pensiero bello, da chi ha passato con me decenni e ancora si sforza di conoscermi man mano che il tempo passa e i rapporti si trasformano.

Presenze e assenze.

Amplificate dal carnevalone natalizio, ma in realtà un leit motiv del 2022: pieni e vuoti, realtà e fantasie, verità e bugie, parole e fatti. È difficile dirlo con sicurezza senza rischiare di sentirsi una polla fra qualche mese, ma la seconda parte dell’anno è stata quella in cui son cadute le maschere, o in cui io son riuscita a smettere di scrivere sceneggiature mentali su come avrei voluto che le cose fossero, e le ho viste invece per quello che erano. Non sempre facile, quasi mai bello. 

E allora non è un caso se la cosa che ho fatto di più quest’anno è stata, paradossalmente, rimanere zitta. Ho ricacciato indietro una quantità di commenti, considerazioni e risposte da scriverci un libricino; ho pensato “testa di cazzo taci” un milione di volte, e un milione di volte mi son detta che non era il caso di esplicitarlo: perché le teste di cazzo sanno già di esserlo, e se non sono in grado di capirlo è inutile provare a spiegarglielo (certo, poi c’è la categoria delle teste di cazzo compiaciute con quel misto insopportabile di debolezze ed egocentrismo mal mascherato, e a quelle bisogna solo stare lontanissimi).

Non so se il mio non parlare sia (stato) l’atteggiamento giusto – il mio analista ha qualcosa da dire in merito, e non solo lui – ma so che quantomeno mi ha permesso di concentrarmi sulle cose importanti per me. Seconda sorpresa: passa il tempo, ma restano sempre le stesse. Semmai si radicalizzano. Prendono spazio, trovano forme. Ci sono stati alcuni momenti tristissimi quest’anno, e su tutti una mattina di maggio in cui sbagliando completamente sono andata da sola a fare un’operazione delicata e poi ho pianto per i due giorni successivi, e mentre la tristezza mi avvolgeva e spingeva verso il basso mi sono letteralmente aggrappata al pensiero che la mia felicità non è mai solo mia, ma vive nell’armonia, nella giustizia, nell’uguaglianza, nella fratellanza, nella consapevolezza della strada da fare insieme. 

Ci ho lavorato parecchio, quest’anno, intorno a questo concetto di felicità individuale e collettiva; ho messo mattoncini di consapevolezza grazie a persone vecchie e nuove, ricavandone nuove volontà, certezze, determinazioni. Di questo, soprattutto, sono grata: può fare tutto schifo fuori, può essere tutto sbagliato e da rifare, ma io – noi – sappiamo qual è la strada. Non è solo che non è poco: è proprio tanto. 

Scrivo con il naso attaccato al finestrino, da un aereo: ho ripreso a prenderne parecchi, da quando la vita è tornata più o meno normale post covid. Sotto di me si srotola Roma, e mentirei se nascondessi che il mio innamoramento per questa città impura e avvolgente è cresciuto ogni giorno da quando sono arrivata, due anni e mezzo fa, come una marziana catapultata su un pianeta alieno e spaventoso. Di Milano oggi mi manca quanto amavo Milano e la mia vita quando ci stavo, null’altro: nemmeno una casa che ho comprato pensando che ci avrei (avremmo) vissuto per sempre e in cui adesso mi fa fatica anche entrare. Credo sia il mio personale miracolo: amare tanto, amare sempre, amare nel momento. E poi andare avanti.

Le canzoni dell’anno, allora, non possono che essere due: L’amore è tutto qui, Piero Ciampi in tutta la sua inafferrabilità, e Keys to my heart, Joe Strummer prima che diventasse Joe Strummer.

Una perché dice la verità, l’altra perché serve: decidete voi come usarle.



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La cura della bellezza

Tutte le sere, negli ultimi sei mesi, tornando a casa sono arrivata all’altezza del ponte di Trastevere, ho passato il semaforo, ho rallentato, mi sono voltata a sinistra e ho pensato – a volte mormorato, altre urlato, altre ancora cantato in una specie di estasi euforica – madonna che posto, madonna che città. 
È l’angolo, quello, in cui mentre stai percorrendo una strada come ce ne potrebbero essere mille altre ti scorre di fianco il miracolo geologico dell’Isola Tiberina, e dietro la facciata dell’ospedale costruito in mezzo al Tevere, tra le palme, si incastona la cupola della sinagoga e, spesso, uno spicchio di luna, o la luna intera.
Non ho mai visto, in tutto il mondo, uno scorcio di città così bello. Se la batte forse con Rio, ma d’altronde dal primo giorno in cui ci ho messo piede ho pensato che Roma e Rio avessero molto più in comune di quello che si capisce dalle cronache sciatte e spesso falsate dei due posti. 
Ogni tanto, se non piove, passo il semaforo e mi fermo: accosto e sto a guardare qualche secondo, poi riparto col cuore tutto goffamente alleggerito dalla bellezza. 

Dedichiamolo alla bellezza, allora, questo resoconto di fine anno. Alla bellezza del sentirmi a posto. Dell’aver trovato una dimensione che funziona in una vita nuova, con molte cose ancora da sistemare e definire, ma che mi piace. In cui quando mi perdo in motorino non mi viene una crisi isterica, ma il pensiero che posso guardarmi intorno ancora un po’. In cui ho acquisito abitudini rassicuranti, avvolgenti, casalinghe. In cui posso contare su un piccolo gruppo di amici con cui esplorare argomenti e luoghi. In cui amo il quartiere con in cui vivo, la mia piscina, il mio bar. In cui mi capita di tornare a casa dopo il lavoro e trovarci dentro colleghi che stanno cucinando, e che per cucinare hanno dovuto mettere a posto nel mio casino e si lamentano che non c’è lo scolapasta e ho lasciato una scarpa in ogni stanza, ma che ormai sanno che io sono così.

Alla bellezza della sicurezza, anche. Nell’amore, reciproco, di amici sparsi in giro per l’Italia e per il mondo, con cui ci si ritrova e si è subito comodi, a casa. E in me stessa. Sarebbe bello poter dire di aver finito la traversata del deserto, ma non si finisce mai: soltanto, ci sono dei pezzi che fai a piedi e senz’acqua, e altri a dorso di cammello con la borraccia bella piena. Però se c’è una cosa che ho acquisito quest’anno, e che spero di non perdere alla prossima sventolata di mistral, è una fiducia slegata dalle contingenze. Fa strano dirlo a una certa età, dopo averne passate tante ed esserne sempre uscita abbastanza bene, sopratutto agli occhi degli altri – notoriamente più generosi dei nostri. Ma lo so io, e gli anni di analisi, e lo yoga, e gli esercizi di respirazione, e la piscina alle sette di mattina, e i libri dentro cui sto immersa, quanto ci ho messo a sentirmi così serena; consapevole di quello che mi fa bene, male, o che non merita il mio tempo. 
Ho imparato, quest’anno, il valore del conflitto: non avere paura di dire quello che pensi, andare allo scontro se necessario, partire da lì per trovare un terreno di confronto. La frase sembra rubata ai discorsi sullo sciopero generale e alla necessità di rigenerazione della politica, ma è vera sempre, per tutti: e, proprio come in politica, succede che chi non riesce a stare nel merito sposterà il piano, dirà altro, racconterà balle, proverà a ferirti e magari ci riuscirà anche, ma solo finché sarai tu a concedere quello spazio, dentro e fuori di te. 

C’è una leggerezza meravigliosa, in questa condizione, la stessa che un amico mi spiegò mesi addietro come la caratteristica inviolabile della bellezza di Roma: la sua storia, tutto quello che c’è stato ed è tangibile in luoghi unici ma anche nel carattere dissacrante della città, ti riporta sempre all’essenza, alla semplicità.
Con questa consapevolezza ho passato un’altra estate lunghissima e stupenda, tra Cala di Forno, Arles, Marsiglia e Creta, con la costante del maestrale che – si dice sulla Côte bleue – dura sempre uno, tre o nove giorni, e a un certo punto ti rende pazzo, foss’anche di gioia. Ho allungato l’estate fino al suo limite, l’ho fatta sgocciolare sul litorale e nella campagna romana cercando di estrarne ogni momento; mi son trovata in un sacco a pelo in mezzo a sconosciuti in un ritiro inaspettato e a baciare un rametto di legno come alleato prezioso; ero sull’Isola Maggiore a vedere un concerto struggente, con IoSonoUnCane come un fantasma sul palco, il tramonto alle spalle e i traghettini ad attraversare l’orizzonte e ho passato ore ventose ad arrampicarmi su rocce primordiali con le mie amiche spiaggiate nei dintorni, ognuna immersa nella propria bellezza. Solo un’estate così poteva consentirmi di arrivare a Natale – a dispetto dello stress, del lavoro, delle discussioni in redazione, di Omicron, di un tampone che in questo esatto momento potrebbe costringermi a passare le feste in isolamento  – in una specie di pace che son pronta a consacrare stappando da sola metà delle bottiglie accumulate in queste serate di bevute rimandate. 

È l’incanto della vita: credo di scriverlo tutti gli anni, con intensità crescente. La canzone per celebrarlo, quest’anno, me l’ha mandata Davide, un giorno che gli avevo chiesto qualcosa a metà tra la suite 1 di Bach e River di Brian Eno, e dopo averla sentita di notte a letto l’ho riascoltata talmente tanto, lei e molto Pat, che ho dovuto chiedere a Davide anche come uscirne.
Io ve lo dico, c’è del magico: Spiritual

 

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Fenomenologia dell’Hair Salon

C’è stato un tempo in cui riuscivo a credere ai consigli gratificatori delle riviste femminili: “Stanca e stressata? Fai qualcosa solo per te. Regalati un trattamento e fatti coccolare nel tuo hair salon preferito”.

Hanno smesso di chiamarsi parrucchieri tra la metà e la fine degli anni Novanta. Poco a poco, sono spariti i negozi con la vetrina singola, i prezzi discretamente in vista e la pila di riviste con i tagli possibili appoggiati su tavolinetti di formica; negozi nei quali entravi, chiedevi una spuntata e colpi di sole per uscire dopo due ore alleggerita di ottantamila lire – diciamo 80/90 euro di oggi. Al loro posto sono comparsi “i saloni”, spazi grandi come ex capannoni industriali con declinazioni che vanno dal Natural hair style, tutti legno e piante d’arredo, tisana bio all’ingresso e sottofondo che spazia da Ludovico Einaudi all’indie melodico, ai Rock salon, in cui la divisa d’ordinanza di hair dresser ed hair designer sono anfibi e jeans neri, la musica è ispirata alla compilation classic rock di Spotify e cassettoni di legno lucidato funzionano da sedute. In mezzo, c’è un mondo che passa dallo stile Airbnb – l’uniformità del minimal, di gusto, senza personalità ma senza difetti apparenti – ai saloni di grand hotel con viste spettacolari sulla città, dove – mi raccontava compiaciuto un protagonista – fare un’acconciatura costa facilmente 400 euro (ma sicuramente non la chiamano acconciatura).

Il problema dei salon è che una volta varcato l’ingresso devi abdicare a qualsiasi razionalità, ragione, persino raziocinio, accettando di sorridere compiaciuta quando la tua colorist, dopo averti sciacquato i capelli, inizia a squittire di gioia per quanto è venuto bene il colore mentre le colleghe accorrono a darle ragione e tu provi a rintracciare nello specchio davanti a te un bagliore, una scaglia di luce, un riflesso dorato, senza vedere assolutamente nulla. Normalmente questa è la fase in cui hai già ascoltato mezz’ora di discorsi privatissimi al lavatesta: la peculiarità dei salon è che i discorsi non sono quelli delle clienti bensì delle e degli incaricati al lavaggio, che approfittano di quei minuti di svantaggio oggettivo delle clienti – col collo incassato in un lavandino e l’acqua che cola dentro i vestiti – per farsi confidenze intimissime. E siccome i salon sono espressioni di questi tempi, ti può capitare di ascoltare tuo malgrado delle difficoltà dell’integrazione di chi sta cercando di cambiare sesso (celò), di fellatio praticate e ricevute nel bagno del salon (celò), di litigate con coinquiline seguite a notti di cheta&coca (celò) e di tutto lo spettro, anche molto più normale, che si trova nel mezzo. 

Il che, comunque, non è niente di sgradevole in principio, a parte per la mal riposta speranza iniziale della “mattina tutta per te” che cancellerà lo stress, perché oltre a non essere evidentemente una mattina solo per te lo stress inizia ad accumularsi insieme alle chiamate a cui rispondere a partire dalla terza ora di stazionamento sulla poltroncina, che in casi estremi non è nemmeno l’ultima. I trattamenti, infatti, si moltiplicano quanto i nomi per chiamarli e, soprattutto, gli sforzi per evitarli.
– Ti ho messo una crema per i capelli secchi, la lasciamo in posa una decina di minuti e poi facciamo il tonalizzante che deve stare anche lui un quarto d’ora.
– Ma il tonalizzante a cosa serve precisamente?
– Evita che si ossidi il colore.
– Guarda il tonalizzante magari non lo farei, va bene così.
– Ma no, cara, non si può non fare, cambia tutto il risultato, abbiamo fatto una base fredda apposta così la scaldiamo col tonalizzante, e poi uniforma bene il risultato, no, davvero, poi noi siamo famosi per il colore, fidati!


Fidati.
E ci si può anche provare, con stress e uggia crescenti, fino all’arrivo alla cassa, dopo aver scosso la testa tra le venti e le trenta volta per cercare di tornare ad avere un aspetto normale e scorgere, in un posto isolato dietro la nuca, quello speciale colpo di luce per cui vale la pena aver visto rincorrersi fuori dalle vetrine splendenti il brusio della prima mattina, gli aperitivi del mezzogiorno e i primi tè del pomeriggio, sempre affondata nella stessa poltrona. Ma no, una volta alla cassa fidarsi è impossibile perché il conto non solo è pari a un terzo del mutuo di casa ma è pieno di voci incomprensibili come la bolletta telefonica o quella del gas.

Scena realmente vissuta, Roma, autunno 2020: mi faccio consigliare da un’amica un parrucchiere, approdo in un salon, prendo appuntamento alle 19,30, chiudono alle 22. Dalle 1930 alle 22 riescono solo a sistemare un po’ taglio e doppie punte, ma se torno sabato alle 13 facciamo i colpi di sole. Conto: 90 euro. Torno sabato, mi siedo alle 13, esco alle 18.30. Conto: 270 euro. Quando me lo mette di fronte sbianco. Chiedo spiegazioni. Inizia a menzionare il toner, l’antifriz, il balancing, la crema pre colore e post colore, lo shampoo ayurvedico, il supplemento per i prodotti bio, l’asciugatura e il ginocchio che fa contatto col gomito. Dico che insomma, mi pare largamente largamente fuori misura, per non dire che mi ha fatto pagare due volte shampoo e asciugatura, ma mica ero stata io lenta la volta scorsa. Scuote la testa desolato come un operatore di un call center in carne e ossa, vero, che deve dimostrarti che ha pena perché ti sta scippando. Pago, e passo il resto del weekend a meditare di chiamare la Guardia di Finanza. Ma non lo faccio perché, sono certa, sono io che non ho chiesto ragguagli e lasciato che mi circuissero: è così che funziona il salon.

Con questo spirito, da un paio di lustri, affronto le mie due o tre sedute annuali. L’altro giorno, mentre uscivo, ho sentito che non posso più sopportarlo: inizierò a fare da sola. Studierò la chimica del colore, imparerò a tagliare, a tonalizzare, a produrre creme e  impacchi e unguenti. 
Alla fine sarò diventata una terrapiattista contraria alla scienza, e allora ricordatevelo: è stata tutta colpa del capitalismo arrembante dei salon. 

 

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Agratis

Ogni tanto penso che i miei vicini dovrebbero darmi un contributo per l’affitto, considerata la musica che faccio loro ascoltare agratis giorno e notte. 

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La traversata del deserto

Passo un sacco di tempo a cercare di capire come diventare la persona che vorrei essere; a volte persino a provare a esserlo.
Con gli amici, quelli che considero famiglia, la chiamiamo “la traversata del deserto”; rende l’idea, salvo che non so esattamente dove finisce la sabbia, e inizio a credere che non finisca mai: succede solo che sei più attrezzato nell’aggirarti tra le dune.
La questione difficile, però, è definire cosa esattamente faccia parte della traversata del deserto: la psicoterapia ok, un buon punto di partenza, forse obbligato; lo yoga e la meditazione, certo; il silenzio, il respiro, il digiuno, lo sport; il combattere le aspettative senza smettere di sperare, l’attimo presente, il proprio ruolo nelle situazioni, lo sguardo allargato e l’occhio all’interno, eccetera. Qualcuno metterebbe nella lista la sospensione del giudizio ma io no, sono abbastanza onesta intellettualmente (smettere di raccontarsi storie su di sé: tappa tre o quattro della traversata) per sapere che non sono in grado di non giudicare: però ho imparato a cambiare idea, anche in fretta, a dire che ho sbagliato, a chiedere scusa.
Fin qui, comunque, siamo nel campo del lessico familiare a chiunque abbia intrapreso un percorso, un lavoro su di sé si dice in gergo, e ricordo che la prima volta che l’ho sentito dire con serietà ero una giovane donna senza troppa consapevolezza con un fidanzato di dieci anni e parecchia solidità più di me: l’idea sembrava promettente ma ero ancora nella fase in cui pensavo che si dicesse “lavorare su di sé” ma alla fine toccasse prevalentemente agli altri, e che in ogni caso lo strizzacervelli avrebbe risolto tutto solo per il fatto che mi sedevo sulla sua poltroncina per il corrispettivo di circa 3 euro al minuto. Dovevo  insomma ancora iniziare la traversata, 15 anni fa, e oggi provo un misto di tenerezza e pena per coetanei che sono ancora in quella fase, perché non solo non hanno la minima idea di quanto c’è da camminare, ma soprattutto non sano che prima o poi, volenti o nolenti, dovranno iniziare a farlo.
Dicevo, comunque, che ho sempre molti dubbi, agitati talvolta dalla pigrizia e altre dalla paura, su cosa rientri nel percorso: quali sono i confini del mio essere legittimata a lasciarmi andare, a non sforzarmi di essere il mio meglio possibile? Sono in treno alle 21 di una domenica con l’ultima copia dell’Economist in valigia, quella di cui nel mio mondo si è parlato allo sfinimento (The illiberal left) e che ho letto solo distrattamente nel sunto delle prime pagine: devo tirarla fuori o posso continuare ad ascoltare musica sciacqua cervello?
O forse dovrei infine iniziare l’audiolibro del Duexième Sexe, ché farebbe molto bene al mio francese, nonché  alla mia coscienza femminile e femminista: quanto sarò migliore dopo averlo ascoltato? Posso permettermi di rimandare? E quanto ancora posso rimandare una telefonata che non ho davvero voglia di fare, pur sapendo che l’altra persona la aspetta?  Molto peggio: quante volte posso ignorare il povero cristo che mi chiede un euro mentre io sto per spenderne 30 di cena, verosimilmente per la terza sera di fila, liquidandolo con un cenno della mano come se fosse una mosca di cui liberarsi, una seccatura umana? (E avrei il coraggio di fare quel gesto a tutti quelli che davvero mi sfiniscono con le loro menate, a quelli che vedo anche se non ne ho per nulla voglia, a quelli che conosco per lavoro? e quanto mi rende una persona orrenda già conoscere la risposta?)
Altre domande sparse, giusto per aumentare l’affanno: qual è il giusto compromesso tra la passione per il lavoro e le barriere necessarie a continuare a vivere?  E dove sta il confine tra il difendere le proprie idee con coraggio e non andare fuori dal gruppo? Come si dice a qualcuno che sei stanca dei suoi giochetti senza essere aggressiva, specie se l’altro magari nemmeno sa di farli? Ancora: quante idiozie posso pubblicare su Facebook prima di diventare come quelli che non tollero, sempre a rimirarsi nello specchio e a lucidarsi l’ego con la benevolenza e la considerazione altrui? E questo post, su questo blog che sta lì da 15 anni e su cui scrivo sempre più stancamente, a chi dovrebbe servire esattamente se non al mio di ego?
Potrei continuare – e deprimermi,  ché per quanto abbia camminato davanti c’è un oceano di sabbia, è evidente. Eppure, una delle cose che ho capito in questa eterna traversata è che la svolta arriva quando inizi a fartele, le domande. Il lavoro è tutto lì. Per le risposte c’è sempre il genio dei CCCP: Io sto bene, io sto male, io non so come stare. 

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Com’è bello

Qualche giorno fa è morto improvvisamente il padre di un amico. Era stato un tipo estremamente giovanile fino a pochissimo prima di andarsene, ma soprattutto era stato uno di quei padri ingombranti che in famiglia fanno parecchi casini: quelli che a vent’anni ti riempiono di rabbia e di vergogna; a trenta ti spaccano la testa, lo stomaco e, di certo, le storie; a quaranta inizi infine, se non a perdonare, quantomeno a comprendere. Un padre come il mio, insomma: dominante ma assente.
Mio padre l’ho racchiuso in questa definizione, emotiva e razionale, per anni: una faticosissima strategia di sopravvivenza, necessaria a superarlo. Eppure, vuoi l’età, la paura del Covid o la sofferenza della distanza, nell’ultimo anno con mio padre ho iniziato ad avere un rapporto via via più intenso: telefonate frequenti, weekend insieme, cene di famiglia. Poi è successo che la sua nuova moglie gli ha regalato un iPhone e lui ha imparato a usare whatsapp: una iattura per il resto del mondo – le chat coi genitori, i messaggi squinternati, le foto fuori fuoco – ma nel nostro caso una prova di normalità. Mi capita di scrivergli messaggi, quando so che andrò a trovarlo: Mi fai la pasta con le vongole? Ho voglia di pesce! Andiamo a vedere il nuovo Morandi? e leggere le risposte, che impiega un tempo eterno a digitare, mi fa sempre sorridere. 
Sono stata male nei giorni scorsi e oggi, a metà del pomeriggio, ero a lavorare, ho trovato una notifica: Come stai? Ricordati di prendere le medicine. Vedrai che domani sarà tutto passato.
Ho pensato com’è bello avere un padre, quanto mi è mancato, quanto me lo voglio godere.

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Un anno felice

Bisogna dirlo a bassa voce, ma il 2020 per me è stato un anno felice, a tratti felicissimo. 
Bisogna dirlo a bassa voce perché è giusto e necessario chiedersi quanto può essere felice un periodo che ha portato alla collettività dolore, paura, perdite e problemi, e ancora ne porterà. Io ho provato a chiedermelo e ne sono uscita con una risposta che qualche anno fa avrei bollato come new-agismo, ma a togliere l’inglese e l’ismo c’è molto da imparare, e certamente che la felicità non è data e non esiste in astratto: si costruisce ogni giorno. Soprattutto, bisogna aver voglia di essere felici e bisogna farsi il mazzo per riuscirci, perché solo a 20 anni, e solo per alcuni, persino la gioia è gratis. 
Da un po’ di tempo, io ho scelto con risolutezza di essere felice – di eliminare o almeno limitare quello che so non potrà rendermi  serena, di provare a muovermi verso quello che mi fa stare bene, di trovare la gioia dove so può essere o nascere. Ci sono svariati corollari pratici – smettere di frequentare le persone sbagliate, di fare un lavoro che non piace, di coltivare un’idea di sé irrealistica – ma siccome questo è un post sul mio 2020 felice e non un manuale di autoaiuto con i corollari pratici potete sbrigarvela da soli, o al limite con l’aiuto di Brezny: ognuno ha i suoi, d’altronde. 

L’ultima volta che ho scritto su questo blog, che certo mi costa di hosting troppo rispetto alla frequenza con cui metto nero su bianco i miei pensierini per il mondo, ero a Marsiglia. Forse vale la pena di partire da lì, da un’estate in cui ho deciso di fare quello che da anni dicevo che avrei voluto voglia di fare senza mai averne il coraggio: ho affittato una casa in Francia, sono stata lì a scrivere e a gironzolare, a passeggiare da sola per i Calanchi e a perdermi in mezzo a cale e a calette, a guardare il tramonto dagli scogli di Malmousque, a infilarmi a vedere documentari in un cinemino di Cours Julien capendone forse un terzo, a bere birrette con gente che conoscevo poco o niente, a cantare a squarciagola pedalando lungo la corniche, fermandomi ogni tanto a guardare il mare e a pensare – appunto – quanto cavolo fossi felice. Perché era estate, le bare sui camion militari sembravano lontane, stavo imparando una lingua e scrivendo una cosa che quando la rileggevo la mattina pareva avere una sua dignità,  ero bella, ricciola e abbronzata, in uno dei posti più belli del mondo – del mio mondo, almeno. 

Marseille, 2020

Marsiglia è arrivata dopo mesi passati a raccontare lo sconvolgimento inaspettato del Covid agli stranieri, con Gabri, pagati per fare un mestiere entusiasmante, per cercare di capire le cose, per essere gli occhi di chi non è lì, come diceva un mio vecchio maestro, e centinaia di altri, suppongo. C’è un egocentrismo insopportabile nel giornalismo, e lo vedo benissimo negli altri augurandomi senza certezza alcuna di essere almeno un po’ diversa, ma quello è stato un momento  bello, professionalmente: non ho riletto quanto scritto in quei mesi, anche se Serge ne ha fatto un librino, e credo che mi imbarazzerebbe farlo, però so di aver lavorato con l’onestà, con l’impegno e con tutta la sincerità di cui ero capace. 

Che il lockdown a Milano sia arrivato il giorno dopo il mio quarantesimo compleanno, il lunedì dopo un weekend in cui avevo portato 40 amici in un borgo toscano per festeggiare tutti insieme, e che durante il fine settimana sia scoppiato il caso di Codogno, e uno dei miei invitati sia stato richiamato a Milano perché uno dei suoi colleghi conosceva il paziente zero, e che tutto quello straordinario weekend sia stato caratterizzato da me che gironzolavo con il mio fido microfono gridando “Aggiornamento coronavirus” e dando i numeri dei contagi ogni tot nell’inconsapevole ilarità generale, e che durante il weekend i numeri siano cresciuti al punto che mentre tornavamo a Milano dopo una festa mitica, suonata dal Branzino, di colpo ci fossero le camionette militari sull’autostrada, bè, diciamo che è una specie di perfetta rappresentazione concentrata del tasso di assurdità di questo 2020, rispetto ai canoni standard con cui siamo abituati a valutare le cose. 

Il 2020 era iniziato con me e Angela a fumare fuori da una vecchia chiesetta sulle Dolomiti, in un paesino minuscolo di cui con il solito gruppo avevamo occupato pressoché ogni posto letto, e tra le tante cose di cui stavamo fantasticando in quel momento un mio trasloco a New York  sarebbe stato molto più probabile di uno a Roma. Non serve che dica com’è finita: avevo sulle spalle il mio zainetto con acqua, pomodori e ciliegie, diretta verso Les Goudes – il Paradiso in Terra, a proposito – quando m’hanno offerto un lavoro che in quel momento mi sembrava più inverosimile dell’ipotesi di andare a vivere in una specie di scantinato con un marsigliese e la figlioletta di due anni – una prospettiva che stavo effettivamente vagliando. Scrivo da Trastevere, e mentirei se dicessi che avrei preferito all’altra maniera. 

Tutti mi chiedono com’è Roma, e non si può rispondere molto più di: stupenda e infernale. Non c’è il minimo dubbio che sia la città più bella del mondo, capace di sostenerti solo perché ti guardi intorno e la bellezza è tanta e tale da rimetterti temporaneamente in sintonia col cosmo. Non c’è dubbio nemmeno che Roma sia capace di succhiarti il sangue, con un traffico che rende Milano un paesotto, un cinismo bello solo nei film e un problema di spazzatura di cui ancora non riesco a capacitarmi; un posto immenso, complesso, stratificato; un posto in cui ho pochi riferimenti, non conosco le strade, mi perdo a ogni incrocio, sento talvolta una mancanza struggente della mia casa milanese, delle piante che ho cresciuto con amore e poi abbandonato, dei miei vinili, della mia routine, del percorso che ho fatto per anni quando andavo a correre, degli amici così intimi da presentarmi a casa loro in pigiama dicendo Non ho voglia di cucinare per poi restare ore a chiacchierare e dormire sul loro divano. Quando ad aprile 2019 mi sono quasi ammazzata in un incidente d’auto, Franci mi ha chiamato e chiesto: “Di cosa hai bisogno, dimmi cosa posso fare, quando uscirai dall’ospedale sarà estate, vuoi che vada a casa a farti il cambio degli armadi?”. Chiedimi cos’è l’amicizia, ti risponderò il cambio degli armadi. 

Non so cosa c’è dall’altro lato della staccionata del 2020: quando sono arrivata, dopo aver singhiozzato per tre giorni perché non avevo voglia di rinunciare a una vita in cui stavo bene per una di cui non sapevo nulla sapendo però che non provarci nemmeno sarebbe stato sciocco, ecco, quando sono arrivata avevo paura della mia ombra. Penso che fosse passato poco più di un mese la sera in cui, un po’ brilla, ho scritto un messaggio a un amico dicendogli: “Ma lo sai che sono felice qui?”. 
È vero. Non sono nel mio comfort, ma sono felice di aver deciso di provare a costruirne uno nuovo. A dispetto del momento storico, della malinconia per il mondo di prima, delle complicazioni pratiche del coronavirus, del fatto che alla nostra età tutti hanno già la loro vita, e conquistare uno spazio nella loro con naturalezza è difficile. A dispetto del fatto che sono sola e che finalmente, a 40 anni, ho capito che non è colpa mia. Le donne felici e indipendenti fanno un sacco di paura ai maschi, e non per qualche stereotipo di genere da manuale di self help, bensì perché anche gli uomini faticano a costruire la loro felicità e spesso la credono legata all’essere indispensabili, non rendendosi conto che anche chi sta bene da solo può aver voglia di infilarsi nel mondo altrui. Purché sia un mondo in cui stare comodi. 

E a proposito di mondi, quest’anno niente tradizionale classifica delle canzoni da portare sull’isola deserta. Una canzone però ve la lascio, e con l’isola deserta ha parecchio a che vedere: Stormi, IoSonoUnCane. Ci sono arrivata con qualche anno di ritardo, a questo cantautore eccezionale, ma l’intensità con cui l’ho ascoltato guardando il nitore abbacinante del mare, a Marsiglia, compensa per tutto il tempo perso. 

Buon 2021 a tutti. Siate felici, o almeno provateci. 

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Dispacci, Marsiglia #5

Magari è che non ci sono ancora capitata – ma non ci sono mai capitata in tutte le volte che sono stata qui – ma mi sono accorta di colpo che a Marsiglia non ci sono cinesi.
Non c’è una Chinatown ma non si ci sono neppure bar, centri estetici, centri massaggi, sarti, magazzini di cianfrusaglie, parrucchieri; persino i ristoranti sono complicati da trovare (anche i giapponesi, in realtà, e le due cose ovviamente sono collegate, o mica penserete che i giapponesi lo siano sul serio). 
Qui ci sono quelli arrivati dalle Comore, gli algerini, i guineani, i nigeriani, i senegalesi, ovviamente migliaia di italiani,  ma di cinesi neanche l’ombra. Ed è la  prima volta, negli ultimi 20 anni, che vado in un posto e penso come i cinesi non se lo stiano comprando tutto.  

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Dispacci, Marsiglia #4

Immaginatevi me, con uno zaino carico d’acqua appoggiato su uno shangai di costole, che a fine giornata provo a ritrovare il sentiero che dal calanco mi deve riportare, un’ora e passa dopo, al parcheggio.
Immaginate una donna in fiamme, senza uomo solo (sarebbero andato bene anche un uomo in coppia, comunque). Immaginatela guardare con sgomento il reticolato di segni e chiedersi, a mezza voce, se quella mancanza di arbusti indichi un percorso, o solo una preferenza della natura, e quale delle molte preferenze di fronte agli occhi sia quella con maggiori chance di essere un sentiero. Immaginatela – ascoltatela, anzi – dirsi che non è possibile, a 40 anni, avendo girato il mondo, non saper riconoscere un sentiero, e poi interrogarsi su quale ingenerosa ripartizione genetica l’ha privata fino a quel punto di senso dell’orientamento: c’è qualcuno cui poter chiedere i danni? Si può fare un forfettone unico con il conto dell’analista?
Immaginate i minuti passare, e lei semi carbonizzata decidersi a imboccare un sentiero, sospettando che non sia abbastanza verticale rispetto alla discesa a picco fatta ore prima. Immaginatela camminare quaranta minuti e ritrovarsi nei pressi di un’altra insenatura, ed essere stanca davvero a quel punto, e anche un po’ preoccupata: quanta strada ci sarà da fare ora? E quale strada soprattutto? E perché tutta quella gente che stava scendendo con lei, di mattina, ondeggiando e gorgheggiando come un gioioso unico corpo, non è lì adesso?
Immaginatela sedersi su una roccia rovente, e attendere. E poi osservate due bambini di otto anni, forse dieci, palesarsi infine risalendo a balzi dalla macchia: in ciabatte, con la maglia della Juve.
Immaginate il giro degli sguardi – non è che mi prenderanno in giro spedendomi dal lato opposto? Non è che ci si accozza e rallenta? – e il più clemente dei due dire: Señora, problema?, in spagnolo, e poi fare cenno di seguirli.

Immaginate come adoro Marsiglia, se ci riuscite.

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