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29.11.2011

Ho una televisione che non funziona, un iPod troppo pieno, due nocciole e tre noci, un pensiero ricorrente e un sollievo stagionale.
Ho lo stomaco annodato dai dubbi e la testa assediata dalle canzoni.
Ho tanti desideri e pochi denari.
Ho molti sogni e ignoti talenti.
Ho l’ironia dei forti e la paura dei deboli.
Tutto nello stesso sabato mattina.

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Torneremo ancora a cantare

Quando è morto il Sic, ieri, ero io di turno al giornale. Mi ha chiamato un amico per dirmelo, infiniti minuti prima che lo scrivessero le agenzie. Ho iniziato a battere la notizia come una automa, condendo le informazioni di rito con un po’ di ricordi, personali e non.
Ma al momento di titolare, ho messo: “Simoncelli gravissimo”. Sapevo che non era vero, che stavo ingannando il lettore. Avevo già guardato il reply dell’incidente un numero sufficiente di volte per sapere che il Sic non si sarebbe alzato mai più.
Chiunque va in moto lo sa, che un colpo così ti ammazza. L’unico miracolato, nel 1983, fu Paolo Uncini: ma erano altre moto, e lui ebbe molta fortuna. Il Canz, che era con Uncini ad Assen quella volta, me lo ha raccontato più di una volta, di come si guardarono pensando che fosse morto. E poi la corsa all’ospedale con Beltramo, e siccome all’epoca il circo mondiale non era roba da ricchi nessuno aveva una lira e il Canz mise tutte le spese sul conto Gazzetta.
Comunque, insomma,  io ieri lo sapevo che il Sic era morto e non avevo il coraggio di scriverlo. Ma peggio è stato fare il mestiere, in 15 minuti. Buttare giù il necrologio senza lasciare che la tristezza rompesse l’argine della professionalità. Mi sarebbe piaciuto piangerci su, darmi il tempo di capire, ma non ce l’ho avuto. Ed è vero che di notizie tristi ne ho scritte decine e decine, ma quella della morte di Simoncelli mi ha fatto più male di molte altre. Forse non mi fa onore, ma siamo uomini e anche un po’ caporali.

Ps. Il pezzo più bello sul Sic, l’unico senza l’inutile retorica che accompagna ogni fine improvvisa e impensata, lo ha scritto Enrico Sisti su Repubblica. Cercatelo, se vi va – io online purtroppo non l’ho trovato.

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abitudini

Sono due notti che non dormo. Ho passato la settimana a vedere leucemie infantili, radiazioni, esplosioni, centrali nucleari.
L’altra notte avevo mio nipote nel letto e mi sono svegliata di soprassalto, a toccarlo, per vedere se era tutto intero.
Stamattina alle 4 stavo scrivendo del patto di Bengasi, Gheddafi, la guerra, i caccia. Alle 10, Milano ha scodellato un sole pazzesco e sono uscita in motorino. E per strada mi veniva da piangere, un tracollo emotivo, qui il cielo azzurro e una canzoncina nelle orecchie e 1.000 chilometri a sud i bombardieri, i bambini morti, gli spari per strada.
Non ce la faccio, mi sono detta, sono troppo fragile per questo lavoro. Ma forse alla fine ci si fa l’abitudine.

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stuck in a moment

Ho preso il Titto e abbiamo cantato e ballato lungo tutto il carugio
e per cinque minuti sono stata
in pace con l’universo

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Ciao Franci

Ieri notte se ne è andato il Dima. Così, senza addurre motivazioni plausibili, per usare un’espressione che di sicuro lo avrebbe fatto ridere.
Era stato il mio maestro di giornalismo, e prima ancora una sorta di zio; più di un amico, un pezzo della famiglia.
Il Dima aveva la capacità di dirmi quando una cosa andava bene o no, su un articolo e nella vita di tutti i giorni. Geolina, quel rossetto ti invecchia andava di pari passo a Geolina, questo pezzo non mi trasmette emozioni. In entrambi i casi, sapevo che aveva ragione, anche se a volte provavo flebilmente a questionare.
Da tempo non lavoravamo più insieme, ma mi teneva d’occhio a distanza. La settimana scorsa, dopo aver letto un mio pezzo, mi aveva scritto una mail: “Oggi sono proprio orgoglioso di te. Non c’entro niente, lo so. Ma è come dire: ho visto il mio vicino in televisione… io quello lì lo conosco! E io conosco Geolina dolce che è proprio brava”. Gli ho risposto: “Tutto merito tuo, Fra”. Oggi, quando mi hanno chiamato per dirmi che non c’era più, ho ringraziato il cielo di averle scritte, quelle quattro parole.
Non so perché Fra se ne sia andato così. Nel sonno, come una persona affaticata.
Affaticato lo era di certo, ma la vita in lui sgorgava come acqua dalla fonte.
Aveva sofferto molto, quando un qualche pirla trentenne in giacca e cravatta appena assunto in Mondadori aveva pensato di iniziare a ridurre i costi partendo dal suo giornale. Non aveva capito nulla, ovviamente; e infatti dieci anni dopo avrebbero pagato qualcun’altro per fare la stessa cosa che Fra aveva intuito anni luce prima del resto del mondo. Ma quella storia gli aveva fatto male, anche se non lo diceva: il Dima era uno che viveva per scrivere, più che il contrario. Aveva tutti i difetti del giornalista, e le qualità di un uomo straordinario.
Quando la sera stavi cercando di andare a casa alle otto e lui ti chiamava di là nella sua stanza avresti voluto imprecare, perché ben che andasse ci saresti rimasto mezz’ora, e magari avresti pure dovuto riaccendere il computer.  Fra non aveva il senso del tempo, viveva solo e parlava incessantemente. Al posto di un computer aveva uno shuttle della Nasa, con duecento cose attaccate, monitor, telefoni, chiavette, decoder, e cazzapuffi vari, come li chiamava lui.
Si rollava a getto continuo delle microsigarettine che dimenticava dappertutto; le trovavi infilate tra la tastiera e il monitor e gli dicevi Cazzo fra, qui no, dai, e lui ti rideva in faccia beato e contento.
Era un uomo pieno di talento, con la testa tra le nuvole ma capace di scendere al momento giusto; era delicato e burbero e brontolone e allegro, e io non riesco ancora a piangere, ma so che presto dovrò fare i conti con il fatto che non c’è più.

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Tutta panna

Ci sono alcune mattine che mi guardo allo specchio e mi spavento per la somiglianza con mia madre. Mi sto mettendo la matita intorno agli occhi e mi vedo lei, come nei miei primi ricordi di infanzia: io seduta sul bordo della vasca da bagno e lei che si trucca con la sigaretta sempre accesa appoggiata al mobiletto.

Uno dei più grandi rimpianti che ho è sapere che non mi ha visto donna. Tra tante altre cose che la vita non ci ha concesso, lei non ha avuto il tempo di vedermi smettere i panni dell’adolescente per diventare una giovane adulta che credo le sarebbe piaciuta. E io non ho avuto il tempo di godermi una quotidianità intima e rassicurante, il confronto costruttivo, la dolcezza dell’amore incondizionato.

Sono passati molti anni ormai e il vuoto che ha lasciato è diventato una presenza con cui ho imparato a convivere. Ma in questi primi giorni di autunno mi trovo a sognare che squilli il telefono e ci sia lei dall’altro capo della cornetta, a chiedermi come  è andato il lavoro e se ci beviamo una cioccolata calda.

Non si lamenterebbe nemmeno più che mi metto le sue cose, perché finalmente peso meno di lei.

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