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Seattle, Dispacci #3

La sede di Amazon a Seattle è stupenda: legno e cafeteria e tre sfere giganti che contengono una foresta – una foresta vera, anzi più foreste: specie tropicali ma anche sequoie, felci e piante carnivore asiatiche; poi naturalmente anche tavolini e Wi-Fi in abbondanza, ché è Amazon, mica l’Amazzonia  – e la sensazione di essere una star solo a metterci piede. Per non dire dell’ebbrezza di fronte al negozio di Amazon Go, entrato così solidamente nell’immaginario collettivo come il futuro, a disposizione solo per pochi istanti e pochi prescelti, che non appena davanti alla porta mi son affrettata a scaricare la App per precipitarmi a comprare qualcosa.

Dicevamo, comunque, che la sede di Amazon è pazzescamente figa, e sono sicura che siano molti quelli che entrando la mattina (o la notte, è il classico building 24 hours) pensino veramente quel Pretty cool, Pretty Amazing duh che raccontano a te mentre ti descrivono la loro routine di Amazoner. Tanto più cool se è vero che gli orari di lavoro “sono il tipico 8-5”, come dice quello della comunicazione parlandomi  dei propri, anche se va detto che se lavori nelle Pr per Amazon e alle 17 hai finito forse sei una discreta pippa, perché con le grane da smazzare a ciclo continuo di un posto così quando ritengono che alle cinque poui andartene, ecco,  probabilmente il tuo contributo non è essenziale, almeno non per le grane vere.

Ma, insomma, la sede di Amazon è stupenda davvero. E anche il magazzino di stoccaggio tutto robotizzato, 30 km fuori dal centro, è pazzesco: i robot fanno qualsiasi cosa intelligente e la comunicazione spiega sempre che sanno tutto perché “Il sistema”, non meglio definito se non con un misto di machine learning e software, fornisce loro ogni indicazione. Poi magari ne scriverò meglio, ma l’essenza è che il robot è veramente una potenza: in  ogni fase sa quali prodotti son dentro a una scatola chiusa e quali scatole non son state chiuse bene soltanto guardandole, e quali prodotti mettere vicini perché fra due giorni con la ripresa delle scuole venderanno di più o magari quali spedire a 200 chilometri perché in quella città li chiedono di più, eccetera. I robot sanno tutto, danno indicazioni precise, segnalano gli errori, elaborano schemi e indicano scelte. A chi? Agli umani, che come in un gioco di specchi di un film distopico fanno il lavoro senza cervello che facevano prima le macchine: aprono, scartano, sollevano, infilano nei cassetti. 

È un rovesciamento totale dello schema tradizionale dell’interazione uomo-robot: gli uomini eseguono, gli altri decidono. Ma è tutto preciso, ben fatto, efficacissimo, perfetto per il cliente cui si offre un servizio eccezionale. 

E insomma, pensavo oggi, guardando le foreste nelle sfere prima e poi gli umani che eseguono le indicazioni dei robot, che Amazon è la sintesi perfetta di dove è andato il mondo e sempre più andrà con la specializzazione delle competenze e l’allargarsi  del divario tra la rendita da lavoro e da capitale (leggi: Piketty) e l’immaterialità degli strumenti con cui si soddisfano sempre più bisogni: chi ce l’ha fatta sta nel mondo scintillante, bellissimo, biodiverso, protetto e connesso; chi non ce l’ha fatta esegue compiti elementari sotto la supervisione di macchine e computer, con le gambe affaticate per i troppi hamburger a pochi dollari e una sensazione di lontananza fisica e separazione tipica del terzo mondo. 
In mezzo, un esercito che potrebbe farcela ma anche non essere all’altezza, ancora in bilico, che si sdilinquisce sulle meraviglie del primo mondo con la speranza che  aiuti a entrare stabilimente nel circolo, sospendendo ogni altro pensiero o desiderio.

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