Bruma, non nebbia


Ho passato metà della vita a cercare Genova. L’ho trovata a Lisbona, nel saliscendi affannato del tram 28, sul pavé sconnesso del barrio alto, con le porticine strette e i bicchieri fuori dagli uscii. L’ho incontrata a Barcellona, con lo sguardo affondato in scaglie di mare e il cicaleccio frenetico del lungomare, tra l’alba e il tramonto. L’ho scavata nei baretti di Siviglia e Madrid, tra le piastrelle sudicie e i bicchieri di birra mai pieni e mai vuoti, sempre pronti per un altro sorso. L’ho annusata a Bologna, nelle piazzette nascoste che ti colgono di sorpresa girato l’angolo, ed è sempre una festa.
Ma non sapevo cosa cercavo. E non sapevo che c’era già. Ho ignorato Genova per tutta la vita, anche se quel che resta della mia famiglia vive lì e lì ha sempre lavorato, se lì sono detentrice di un conto in banca e anche di parecchie rotture di palle burocratiche.
Poi ho scoperto Genova e ho capito tutto. Perché le foto di Giorgio Bergomi sono così belle e le canzoni di De André così struggenti. Perché Montale è il poeta più vero che abbia letto e i quadri di Musante così vibranti. Perché ho così bisogno dell’acqua per vivere e perché senza gli immigrati una città non è viva.
I vicoli di Genova sono un cortocircuito di gioia e dolore, odorano di rabbia, lotte e viaggi, gente ruvida in cerca di narratori e dolcezza. A Genova c’è la bruma, non la nebbia. Le piazze sono mangiate dalla saldesine e i palazzi raccontano di un impero ripiegato su se stesso, fiero e inamovibile.
Terapia per l’anima: camminare fino a perdersi per ritornare sempre nello stesso punto, ordinare un gotto e sprofondare nell’indolenza e nei mugugni.
Che poi, si sa, Paolo Conte aveva già cantato tutto.

P.S. Poesia sui muri, qui

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