On the asian road_part 2


[leggi la prima parte]

La storia del Vietnam, almeno quella degli ultimi 30 anni nota ai più, gira intorno a un fazzoletto di terra, Cu Chi. Per essere esatti, sopra è un fazzoletto di terra e sotto è il più complesso, articolato e claustrofobico sistema di cunicoli mai costruito dall’uomo; basti pensare che, impossibilitati a entrarci per le proprie dimensioni da Rambo, gli americani assoldavano coreani dal formato mignon per andare a stanare i vietcong.
A portarci a Cu Chi, in un’alba assonnata, è Sonny, un saigonese venticinquenne dall’inglese perfetto e, soprattutto, dall’incontenibile bisogno di parlare. Sonda le nostre inclinazioni politiche con discrezione, e poi butta lì: “A Saigon non odiamo gli americani: ce l’abbiamo con loro perché hanno voluto fare la guerra a modo loro e poi ci hanno abbandonati dopo aver fatto casino. Ci hanno lasciato nelle mani dei comunisti”. Tutto il film di un Vietnam finalmente unito dopo aver schiacciato l’invasore americano va in frantumi in cinque minuti, lasciando spazio a un quadro infinitamente più sofferto e complesso. Mi torna in mente il rifiuto degli abitanti di Saigon di chiamare la città Ho Chi Min, come l’ha ribattezzata il generale, e l’occhiata di sdegno rivoltami dalla commessa del negozio cui avevo chiesto la sciarpa tipica dei vietcong da riportare a un amico. Tanto per dissipare ogni dubbio, quando chiedo a Sonny cosa pensa di Hanoi, risponde: “Rubbish”, spazzatura.

La presenza del regime aborrito da Sonny la subodoriamo per la prima volta durante la notte di Capodanno, unici in piazza a tracannare birre che quasi abbiamo costretto un commerciante a venderci, declinando il suo invito a bere Seven Up; solo dopo un po’ ci sfiora il dubbio che consumare alcolici in pubblico possa essere illegale. Non riusciamo ad appurare se in effetti sia così, ma lasciamo la piazza svuotatasi in tre minuti netti dopo lo scoccare della mezzanotte per finire la serata a Pham Ngu Lao, dove americani sbronzi a torso nudo si strusciano contro corpi orientali in modo non proprio sinuoso.
Ancora di più, tuttavia, la dittatura comulista (neologismo appena coniato: crasi di comunista e capitalista) modello cinese, ci si disvela il giorno successivo nella forma esilarante di Mr Ky, il pacioccone cinquantenne toccatoci in sorta come guida sul Mekong.

Basta la sua vista per rimetterci in sesto mentre, con un paio d’ore di sonno alle spalle e l’ansia della malaria a fare da compagna, sudiamo birre sotto un sole cocente. È un ometto in stile Indiana Jones iperefficiente e sempre allegro che ripete metodicamente una decina di frasi con tono alto e sonante; bombardato dalla propaganda, prova a riproporla a noi spiegandoci i miracoli della collettivizzazione dei terreni agricoli nei dintorni del Mekong. “Very, very good policy” è il suo cavallo di battaglia.

Del Mekong affascina il colpo d’occhio; a prima vista, poco o nulla sembra essere cambiato da quando il capitano Willard lo risalì in cerca di Kurtz. Le acque limacciose sono solcate da imbarcazioni piccolissime o molto grandi, che trasportano uomini e merci; stipati in cabina o sdraiati sul ponte, vietnamiti dalla pelle scura dormono scomposti o si guardano intorno senza espressione. Per tutte le popolazioni che vivono sulle sue acque, il Mekong è un immenso mercato, il posto dove comprare e vendere ogni cosa necessaria alla sussistenza; la giungla compare solo a tratti, quando la barca lascia la portata principale per affondare nei rivoli laterali, schiacciati da giunchi, palme immense e un’umidità che si può quasi plasmare con le mani.

Le città cresciute sulle sue sponde hanno ben poco di esotico e molto invece del casino di Saigon (nonostante la zona sia conosciuta tutt’ora come Bassa Cambogia, per l’antica appartenenza allo stato confinante); a stupire è soprattutto la sporcizia: non esistono cestini per rifiuti e ognuno delle migliaia di ambulanti che offrono qualcosa sul ciglio della strada lascia dietro di sé una scia di cartacce, bucce, contenitori oleosi e altre amenità.

L’elemento più autentico e selvaggio del Mekong restano i mercati galleggianti, dove dall’alba alle primissime ore del mattino le popolazioni locali comprano o offrono soprattutto frutti e altri alimenti di prima necessità. Minuscole lance di legno sono sovraccariche di mango, piccoli cocomeri o banane; a governarle e dirigere i traffici spesso sono donne leggere ma ruvide, con i tradizionali cappelli calcati sugli occhi e i modi spicci di chi non conosce formule di cortesia. I loro bimbi si offrono come intermediari con gli acquirenti, specie quando si tratta di turisti pronti come noi a sciogliersi in una compassionevole pietas che invoglia l’acquisto. Mr Ky ci indica due piccoletti intenti a vendere banane, con visi divertiti e grandi sorrisi; tronfio di orgoglio sentenzia: “Vietnamese, hard workers: look, we have the youngest workers in the world, seven years, five years!”.

Di ritorno a Saigon, la sera, ho la confortante sensazione di essere a casa; ci sbattiamo da Pho a mangiare una minestra, in attesa di salire su uno sleeping bus in direzione Mui Ne.

Lo sleeping bus meriterebbe una trattazione a sé: presentatoci dai locali come un grandioso mezzo di locomozione, entra a pieno titolo al primo posto delle aberrazioni asiatiche in cui sono incappata. Trattasi di un pullman di linea in cui al posto dei sedili si trovano una trentina di mini lettini, su cui dormire mentre il mezzo attraversa il Paese da nord a sud (una 40ina di ore circa); utilizzato per lo più da stranieri squattrinati (costa una manciata di dong), è però tarato sulle dimensioni dei “locali”, rendendo il viaggio grottesco per chiunque, inclusa la sottoscritta, abbia misure ai confini della normalità.

La nostra avventura sullo sleeping bus, comunque, comincia con l’autista che ci afferra per la collottola in mezzo alla strada dicendoci di salire, che siamo in ritardo: inutile spiegargli che rispetto all’orario concordato abbiamo in realtà due ore di anticipo. Incapsulati in questi loculi, sulle cui condizioni igieniche è meglio sorvolare, constatiamo in fretta che il primo problema sarà capire quando si arriva a destinazione; con un calcolo approssimativo dei chilometri mettiamo una sveglia alle due di notte. Impossibile comunque chiudere occhio: la tizia sdraiata davanti a noi, credo una giapponese ma potrebbe essere anche vietnamita, ha la febbre alta, trema, suda ed emette strani versi con il naso. Appunto sull’agenda: “Al ritorno informarsi sulla febbre equina”.

Quando la sveglia suona, i nostri compagni di viaggio stanno per lo più dormendo e a farci compagnia sono solo i neon fluorescenti che scorrono lungo il tetto dell’autobus: inquietanti. Ci vuole un’intensa gestualità per far capire al conducente dove dobbiamo scendere e, una mezz’ora dopo, ci scarica in mezzo a una strada deserta; per fortuna, nonostante la carenza di sonno, i nostri riflessi sono migliori dei suoi e ci accorgiamo in breve che ci ha mollato nel posto sbagliato. Lo rincorriamo, carichi di zaini, pacchi e sacchetti, e riusciamo a farci riaprire le porte del bus. Dopo un quarto d’ora ci fa nuovamente segno di scendere e questa volta l’insegna dell’albergo corrisponde al nome previsto; peccato però che sia chiuso. Ci vogliono una telefonata intercontinentale e una violazione di domicilio a farci aprire il cancello dalla lasciva vietnamita addormentatasi nella nostra attesa. Il che spiega perché trascorriamo i due giorni successivi schiantati in spiaggia, muovendoci al più per ordinare grigliate di aragoste e gamberoni nella capanna-ristorantino dietro le nostre spalle.

[segue]

  1. avatar

    #1 by Giovanni on January 15, 2010 - 16:31

    Gea,
    non riesco a smettere di rabbrividire pensando all’umidità ( odio il caldo umido!) e al caos di Bangkok e di ridere pensando a Pham Ngu Lao….ieri appena un mio collega mi annunciava l’ennesima vacanza in Thailandia, non ho potuto fare a meno di dire “macché, vai in Vietnam, vai a Pham Ngu Lao ( risata generale), una mia amica è appena rientrata e….”.
    Insomma, il tuo resoconto delle “vie d’Asia” ha coinvolto molto anche me…
    Buon fine settimana, in attesa di nuovi luoghi, volti e storie dall’Asia!

(will not be published)