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Dispacci, India – Chennai #4
In tutti i Paesi asiatici il clacson è usato con una certa libertà: più che un segno di avvertimento, un’allerta permanente. Il che, peraltro, rispecchia la natura del traffico.
In India tuttavia è qualcosa di più, quasi un segno di mascolinità: più suoni, più sei uomo.
Ed è così che oggi l’autista del bus Chennai-Tiruvannamalai, sul quale incautamente ci siamo sedute in prima fila, mi ha totalmente stordito: e non basta che abbia messo prima gli auricolari e poi addirittura i tappi per le orecchie, sono arrivata a destinazione frastornata come mai mi era successo per il rumore, con quel senso di nevrastenia da il prossimo che dice una sillaba lo meno che deve essere proprio la spiritualità che tutti vengono cercando quaggiù.
(Il prossimo, per la cronaca, era l’autista di un tuc tuc che dopo tre minuti di contrattazione serrata sul prezzo mi ha accolto dandomi una gomitata nell’occhio con l’orzaiolo, ma la divinità hindù deve averlo protetto dalla mia possibile reazione).
Dispacci, India – Chennai #3
Sto faticando a fare foto.
Normalmente rischio l’effetto giapponese, qui invece ho un blocco. Scatto immagini, le riguardo e mi pare che non restituiscano nulla: non la sporcizia sedimentata in stratificazioni geologiche, non l’accozzaglia di oggetti, cemento, fiori freschi, fiori calpestati e incenso ai margini della strada, non le facce impastate di sudore, polvere e vita, non le mucche sdraiate in mezzo alla strada e centinaia di scooter, tuc tuc e auto incastrate intorno, non la gente buttata per terra a dormire e non – soprattutto – l’ordinarietà della scena, l’assoluta normalità, in cui l’unico vero elemento distonico sei tu con il tuo trolley colorato e gli occhiali da sole e i capelli biondi.
Dispacci, India – Goa #2
La classe media indiana esiste, e consuma smartphone e selfie stick (nonché, sospetto, soft porno in quantità).
Coi primi ci fa foto ovunque: si fa e ti fa. Hanno più foto di me in spiaggia gli indiani che tutta la mia famiglia, inclusi i parenti di secondo grando. Nel soft porno, infatti, alla fine ci sei dentro tu: cos’altro ci faranno mai con quei duecento selfie che ti hanno chiesto di fare in quanto strano soggetto esotico?
Dispacci, India – Goa #1
Dicono che a Goa ci vadano solo gli europei, qualche russo, un po’ di israeliani a mandare giù Mdma per dimenticarsi gli orrori della militarizzazione continua. Noi, però, ci abbiamo trovato praticamente solo indiani: quelli ricchi, turisti del weekend, che scappano dalle città e si intingono in questa giungla umida affacciata sul mare per bere birre e farsi selfie di coppia, etero e gay, senza divieti o timori. Di Mdma neppure l’ombra, ma non l’abbiamo cercato: che in giro ne esistano cascate è certo.
Dire Goa, comunque, non ha molto senso: il nome è quello dello Stato, una striscia lussureggiante e vagamente amazzonica. Sarà il passato coloniale portoghese, con le case colorate e le chiese maestose in mezzo alla foresta, ma a Panjim oggi mi pareva di essere tornata in Brasile. C’è pure un quartiere che si chiama Altinho, che un po’ sa di Pelurinho (Brasile) e un po’ di Trinidad (Cuba), ma col triplo degli insetti e l’acqua di scolo che si impasta con il terriccio, le foglie e la polvere formando un’argilla rossiccia che ti si attacca ai piedi e alle gambe a mo’ di henné permanente.
Poi c’è l’acqua quella dei monsoni, ogni qualche ora: il cielo passa dalla tonalità grigio chiaro pm10 a quella grigio scuro nubifragio in quattro minuti, un venticello si alza a illuderti con temporanee promesse di refrigerio e poi il cielo scarica 15, 20, 60 minuti d’acqua per cui non si scompone nessuno, e ormai nemmeno più noi.
Sui motorini gli indiani si compattano ancor più: quello che sta in mezzo – il numero medio per scooter è tre persone – tira fuori l’ombrello e copre sommariamente gli altri, quello che guida ripone il cellulare in tasca all’asciutto (normalmente ce l’ha in mano), il terzo si guarda intorno come se nulla fosse. Al termine dello scroscio il tasso di umidità passa dal consueto 80 al 160% e gli animali emergono dal sottosuolo; ieri un insetto non meglio identificato lungo circa 4 centimetri di colore marrone stava camminando lungo il petto di Cristina: l’ho cacciato sentendomi un’eroina e mentre mi chiedevo dove fosse finito l’ho visto scendermi giù da una coscia, con orrore pari solo a quello di quando salgo sulla bilancia il 27 dicembre.
Il monsone – per cui lo Stato spende in campagne educative del tipo: La stagione delle pioggia è qui, il traffico sarà un po’ più complicato del solito, quando esci di casa portati un libro – in ogni caso si è portato via i turisti sballoni, ma non la spiaggia. Oggi, dopo essere state a Old Goa, che fu una volta a capitale dell’impero indiano portoghese, grande quando Londra, con sette basiliche immense piantate nel mezzo di una vegetazione da Libro della Jungla (in effetti, Kipling era indiano), siamo partite alla volta del litorale Sud, costeggiando casette coloniali tutte colorate nascoste tra alberi e risaie.
Non pioveva, i bimbi indiani in mutande facevano il bagno nell’acqua ingrigita dal vento e dalla sabbia, i loro fratelli maggiori giocavano a calcio senza mai segnare un gol e al tramonto l’intero villaggio si era riversato sulla battigia, a prendere l’ultimo sole. Un’altra Goa è possibile.
Dispacci Chile #2
Sulla strada tra Temuco e Villarica si incontrano più mucche che persone: due autostoppisti, dieci pascoli bruciati dal sole, una guida sudaticcia che cerca riparo dal caldo mentre aspetta che un pullman di turisti arrivi a caricarlo. Casette di legno sovrastate da gigantografie scolorite che pubblicizzano la prossima fiera del bestiame costeggiano la strada, e potrebbe sembrare il Texas se non fosse per il prezzo indicato sui cartelloni Se Viende che fanno capolino qui e là: ci vogliono 2 milioni e mezzo di pesos – circa 3.700 euro – per diventare felici proprietari di un rettangolo col tetto rosso, con cavallo nel recinto che brulica sterpaglie.
La pampa si dirada man mano che si sale verso il Villarica, il vulcano che gli indios mapuche chiama(va)no Rucapillan, casa degli spiriti. Gli spiriti si son fatto vivi la settimana scorsa: un’eruzione spettacolare ha lasciato il cratere nudo, le colate di lava si sono mangiate il bianco e ora resta un pennacchio di fumo che segna l’orizzonte.
Abbiamo impiegato circa un’ora e mezza per arrivare alla hacienda, una specie di paradiso che costeggia un fiume trasparente, punteggiato di tinozze di legno piene d’ acqua, riscaldate col fuoco, vicino alle quali sonnecchia Obama, il cagnolone della tenuta. Nel pomeriggio, mentre gli altri si lanciavano giù per il fiume con un gommone, ci siamo infilati dentro una tinozza rovente, guardando con ammirazione degli americani (texani, non a caso) che si tuffavano nel rio e poi dentro la vasca fumante.
Oggi vorrei provarci anche io, se solo riuscissi a smaltire quei due chili di asado e vino rosso gentilmente offerti ieri sera dai nostri ospiti in un barbecue in riva al fiume. E meno male che prima di partire il medico si era raccomandato che non affaticassi il fegato.
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Patagonia Dispacci #7 e 1/2
Da quattro giorni non ho accesso a Internet o al telefono. Vivere senza wifi si può (almeno per un po’).
(Sì, questo diarietto è scritto offline e andrà sul web tutto insieme)
Patagonia Dispacci #8
E insomma, ero stata buona e seria per tutta la navigazione, finché ieri sera ho deciso di salire al bar dei gringo a salutare i miei amici canadesi. Li ho trovati in un tavolino centrale, lui col suo cappello da marinaio in testa e un bloody mary in mano, lei in prossimità del bancone del bar a reclamare una ciotola di noccioline.
May I join?, Posso sedermi, ho chiesto, e non avevo ancora scandito l’ultima sillaba che lei gridava al barista, Un pisco sour, por nuestra amiga. Mentre io finivo il primo – g i u r o – lui ha bevuto due bloody mary e mezzo e lei tre flûte di bollicine, con il tono della voce che si alzava sempre più, fino a coprire qualsiasi suono circostante. Snocciolavano racconti di una vita che gli ho invidiato – o, meglio, ho invidiato l’essere arrivati alla loro età e con le loro vicissitudini in quella forma. Per punti salienti: lei pubblicitaria, senza genitori, abbandonata dal compagno non appena nato loro figlio, licenziata all’età di 40 anni perché troppo vecchia per un mondo di giovani rampanti, nonché dotata di prole in età da scuola elementare, viaggiatrice in Europa col figlioletto appresso, reinventatasi freelance, infine accasata con lui 13 anni or sono, all’incirca 50enne. Lui ingegnere, un divorzio e una vedovanza alle spalle, un problema serio di deambulazione, tre figli da accudire, pensionato a 50 anni perché non più del tutto abile al lavoro (ma ricoperto di soldi per uscire), infine felicemente nuovamente marito quand’era già vicino ai 60.
Alla fine delle loro storie, un’ora dopo – rigiuro – lui s’era fatto cinque bloody mary e io tre pisco sour, avevo ovviamente collezionato un invito ad andarli a trovare e lei mi aveva ripetutamente proposto in sposa al loro figlio maggiore (figlio di lui, in realtà, pompiere 40enne danaroso, hanno specificato). Ho promesso che ci avrei pensato e mi sono congedata, prima di svenire a causa dell’alcol prima di cena: mai avrei potuto stare al loro ritmi.
Stamane, mentre andavo a far colazione, sento qualcuno che mi strattona la manica. Era lei. Mi ha indicato il suo telefono: aveva scaricato apposta dal computer alcune foto del mio promesso sposo. Le ho detto che era bello, per non deluderla: e in effetti è carino. Ho anche promesso che a fine giugno vado a trovarli per il festival jazz di Montreal. Penso che sarebbe una delle cose più divertenti del mondo, ma prima devo fare una cura disintossicante: se tanto mi dà tanto, una settimana con loro potrebbe compromettere il mio fegato per sempre.
Patagonia Dispacci #7
Conversazioni standard degli americani a bordo, tra un Martini cocktail e l’altro (dice il barista Leandro che i gringo li riconosci perché bevono solo Martini e Bloody Mary, azzannando Pringles come se fosse appena finita la guerra e avessero anni di carestie da recuperare).
– What was the name of the place we were today?
– Neta
– Nittta?
– No, sir, Neta
– Meet ya?
– No, sir, it’s spanish: Neta
– Dee tha? Whatever. What time is lunch served?
Patagonia Dispacci #6
E certo che una nave da crociera – per quanto piccola ed ecosostenibile e impegnata nella navigazione più avventurosa immaginabile per un mammut di acciaio da migliaia di tonnellate – non è troppo diversa da una caserma di maschi disperati: ho fatto l’errore di entrare una volta nella stanza di comando e di mettermi a chiacchierare con qualche sottufficiale e ora praticamente mi inseguono nei corridoi. Ogni volta ne spunta fuori uno nuovo che si sente in dovere di consigliarmi cosa mangiare o invitarmi a vedere qualcosa o di raccontarmi la storia dello Stretto di Magellano dal 1520 in poi, con ampie digressioni sul ruolo della propria famiglia di avventurieri nell’attuale configurazione della regione. Ieri il capitano in persona – una specie di Tom Cruise dei poveri immobile davanti al timone con le gambe larghe, i Ray Ban e un giacchetto di pelle nera che gli arriva appena in vita – mi ha mostrato come si fa il migliore caffè del mondo, direttamente sul ponte di comando. Ovviamente faceva schifo, ma a dirglielo rischiavo di rovinare il gene del machismo che a queste latitudini (e alle nostre) da duemila anni fa andare avanti il mondo.
La Patagonia Dispacci #5
Infine il vento si è affievolito, in corrispondenza del canale di Beagle: 30 nodi, una bazzecola rispetto agli 81 delle raffiche che qualche ora prima avevano spinto mezza fiancata sott’acqua. La nave fantasma è tornata a brulicare di vita e di appetiti: a ora di cena, americani e canadesi premevano contro la sala ristorante come gli ultras che si arrampicano sulle barriere allo stadio.
Dopo essersi (esserci) abbondantemente rifocillati, il personale di bordo ha fatto scattare il karaoke nel bar in cui qualche indomito inglese aveva continuato a sorseggiare whiskey incurante della tempesta. E si sa, al karaoke io non posso resistere, tantomeno dopo ore di penitenza sul letto della cabina. Mentre gli altri si chiedevano se fossero sufficientemente intonati per intrattenere un pubblico – domanda superfluea per me: mi hanno cacciato da un bar di Beirut tanto ero patetica nell’esecuzione sbronza di Time after time – avevo già in microfono in mano per il primo pezzo: It’s been a hard days night, and I have been walking like a dooooog (non ringrazieremo mai abbastanza i Beatles, ricordarlo sempre).
Mentre gli altri si scaldavano, ho buttato lì anche Like a prayer e nel dimenarmi goffamente un’epifania mi ha colto mostrandomi il talento intramontabile della Ciccone (nonché i muscoli che ha sulle braccia mentre simula la crocifissione: non possono essere umani). Finché una canadese sui 60 anni che avevo osservato tutto il giorno per uno strepitoso cappello a forma di maiale degno della Cani e Porci’s League degli anni migliori si è esibita in un remake di Edith Piaf, col marito che affondato in un bicchiere di gin tonic le gridava Ti prego, non farlo. E’ bastato questo per farmela applaudire con insana convinzione, e al termine del suo giro è venuta a propormi un duo: gli Eurythmics. A questo punto la gente e lo staff ci guardavano già col terrore negli occhi, più o meno supplicando chiunque altro in sala di prendere in mano il microfono al posto nostro. Un paio di ragazzi dello staff, barista incluso, sono stati gettati in pasto ai pesci, producendosi in improbabili ballad pop sudamericane alla melassa che, diciamocelo chiaro, sarebbe da toglierli il diritto di espressione della Costituzione finché fan ‘sta roba.
In ogni caso io e la canadese col cappello a forma di maiale ci siamo impossessate della scena e abbiamo prima cantato una stupefacente Sweet Dreams – io facevo cori e tappeti, oltre alle mie parti cantate – e poi I gotta a feeling, e a questo punto la canadese era ingestibile e oltre a saltare sul posto come in una lezione di educazione fisica ha iniziato a suggerire che saltassimo giù dal divano (Jump off the sofa) del bar salone.
Vi dico solo che è finita con lei che gridava Viva l’Italia e io che che rispondevo Quebec libre! Lei, quantomeno, poteva addurre come attenuante l’aver bevuto.
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