Archive for June, 2014

Simpathy for the Devil

Qualcuno avrà scritto che per loro il tempo si è fermato e che il patto col diavolo l’hanno fatto sul serio: balle. Sono vecchi e si vede. Ma non importa, in fondo: gli Stones sono comunque uno spettacolo fantastico.
Anche se il vecchio Keif si è sbriciolato e oggi paga il conto (comunque poco, considerato quello che ha consumato). Anche se a vedere Mick Jagger ci si chiede se non sa fare altro che quel Mick o se sfrutti il suo stesso marchio: se lo è o lo fa, insomma. Probabilmente un po’ di entrambe, ma il risultato abbastanza incredibile è che il suo dimenarsi sul palco con le chiappe strette, le rughe marcate e i pettorali alti è ancora perfetto.
Poi c’è il rituale collettivo, quel momento di catarsi tipica dei super concerti, la calca, il sudore, la schiena rotta, la gente accatastata in ogni angolo, i fiumi di birra con la vescica che esplode, le facce tirate fuori da un quadro espressionista, i giovani e i vecchi, quelli che a Jumpin’ Jack Flash sono già finiti e non riescono nemmeno a tirare su la testa verso il palco e quelli che alla fine cantano ancora per due ore, soli e sbronzi nella notte; insomma, le ore dilatate in cui 70 mila persone tutte diverse sono ognuna lì per un motivo da celebrare con 69.999 sconosciuti, e a tutti va bene così.
E poi ovvio c’è il Circo Massimo con gli Stones dentro: la storia dell’umanità e quella del 900, l’incrocio che gronda istanti, un condensato di malinconia anche, ché a pensarci bene nella porzione di mondo che conosciamo noi pare che sia già stato fatto tutto, e un’altra storia di musica ed evoluzioni sociali così non capita più.
E quando tutto finisce resta Roma: quella Roma che ci invidiano tutti, la Roma caput mundi, del Colosseo, dei Fori Imperiali, di Piazza Venezia, dell’Altare della Patria, dell’Università di Roma, quella Roma sempre con il sole estate e inverno, quella Roma che è meglio di Milano (copyright Remo Remotti).
Sono arrivata a Milano 18 ore dopo e piove un mondo triste. Sarà un caso, eh.

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Que serà

Lasciare il lavoro deve essere un po’ tipo smettere di fumare: è impossibile non ingrassare.
Sarà che devi occupare le mani in un’altra maniera o che hai più tempo a disposizione. O magari c’entrano qualcosa quelle bottiglie di Traminer bevute all’aperitivo…

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Tutta colpa di Beautiful (Fuck the biological clock)

Ho capito, maledizione: è tutta colpa di Beautiful.
Di quei pomeriggi alle medie in cui arrivavo a casa e, con l’Invicta ancora sulle spalle, accendevo la tivù e mi piazzavo a guardare Brooke, Ridge e Taylor amarsi e tradirsi, morire e resuscitare, gemere e promettere, sposarsi (preferibilmente su una spiaggia delle Hawaii) e divorziare (preferibilmente nella sauna di Big bear): anni interi di “Un giorno alzerai il telefono ma io non ci sarò più, e allora capirai” a forgiare l’educazione sentimentale delle adolescenti. E a promuovere la cultura amorosa del dramma.
L’ho capito oggi, facendo zapping per caso a ora di pranzo. Una delle tante sorelle di Brooke (che nel frattempo sono state impersonificate da cinque o sei attrici diverse, per mantenere l’età fisica bloccata in epoca riproduttiva intorno ai 35 anni) gridava a uno dei tanti ex mariti di Brooke, che però evidentemente era stato uomo anche della sorella, che Brooke non lo amava davvero, ma sarebbe stata nei pressi soltanto finché un’altra sorella avesse trovato un altro uomo e Brooke avrebbe sentito l’esigenza di rubarglielo provandosi più figa, oppure finché non fosse tornato il sempiterno Ridge, che a questo punto penso sia coetaneo di mio padre ma comunque deve avere ancora il suo certo fascino se tutte si strappano i capelli così.
Comunque: lacrime, parole, abbracci, primi piani di lacrime, primi piani di labbra, sussurri, strade di Los Angeles. Tre minuti e mezzo per capire come mi ha fottuto Beautiful.
Andrebbe messo fuori legge: è una specie di batterio, un’ebola dei sentimenti, un amplificatore del culto della scena madre come sommo gesto d’amore, quella roba che nella vita vera dopo cinque minuti ti chiedi perché sei così demente, e quando la mattina dopo piagnucoli nel letto non ti senti mai come Brooke mentre si prova la lingerie pensando alla prossima preda, ma soltanto una sfigata che nonostante le parcelle dell’analista non ha ancora imparato quando deve mordersi la lingua.
Fottuto Beautiful. Ma ora che lo so mi sento meglio. E conto anche di scrivere una lettera di rimborso alla produzione. Forse potrebbe diventare una petizione globale: una specie di risarcimento internazionale a tre o quattro generazioni di melodrammatiche. Non basterà a ridarci il tempo di infinite sceneggiate, ma magari a fare un viaggio alle Hawaii anche noi sì.

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