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Dispacci, Negev-Gaza #7

La verità è che viene da fare gli scemi, a dispetto della serietà con cui si prendono loro. O, forse, proprio per via di quella: raffinamento del concetto abbozzato a Gerusalemme, quando abbiamo pensato di ridare una speranza a migliaia di figli di ultraortodossi condannati a una vita realmente incolore distribuendo copie di Playboy fuori dalle scuole medie, come invito all'(auto)erotismo. Eccoci, gli indiani metropolitani dello shabbattismo.

Che, già da sé, onomatopeicamente si presta, specie se ti svegli sopra un altopiano di sabbia nel mezzo del nulla e devi cercare un beduino vegano e senza denti per farti fare colazione perché quelli da cui andresti normalmente di sabato non toccano nemmeno il telefono.  È lo shabbat, bellezza.

Se ne fregano le capre, che arrivano in mandrie a brucare sulla rotonda di Mitzpe Ramon l’unica erba che si vede in giro per centinaia di chilometri. Poi s’allungano fino al benzinaio, ma lì va peggio: al posto del verde ci sono solo vecchi seduti all’ombra che non s’alzano per i rari avventori, figuriamoci per le capre.

Le rotonde hanno un fascino spettacolare, specie di shabbat, quando arrivi a Be’er Sheeva – una colata di cemento che avrebbe voluto essere Houston o Sant’Antonio, ma è soltanto il posto più brutto che potresti costruire ai bordi di un deserto che non ha nulla da invidiare al Gran Canyon – e non c’è un posto per mangiare che non sia Domino’s Pizza, dove insieme a noi ripara un’americana stremata con al seguito cinque figli ma niente banconote, per scoprire nello sconcerto che è shabbat anche per le carte di credito.

L’accoglienza travolgente della città si plastifica nelle rotonde, monumentizzate con l’apposizione, in sequenza, di un carro armato e due jet guerra, caso mai il visitatore non avesse capito che si fa sul serio, qui. 

E a questo punto stiamo sfrecciando sulla AyGo praticamente fusa dalle sgommate del Galimba in direzione nord, cantando My Shabbatta, adattamento della più nota My Sharona per cui abbiamo coniato diverse versioni mediorientali, e simulando – con la creazione di un simbolico GeGiù, mia prole – come dovesse sentirsi la Madonna incinta a spiegare a questi rigidoni che era stato lo spirito santo, e che dopo tanto dispiegamento di miracoli bisogna per forza nutrirsi anche di sabato, mica vorremo vanificare gli sforzi.

Nonsense in Terra Santa, già, ma in fondo è ben poca cosa rispetto all’assurdità del muro con filo spinato che sormonta Gaza, creando una gabbia affollatissima affacciata su una baia colorata da migliaia di conchiglie. Duecento metri più in là ragazzi israeliani fisicati e sorridenti – che hanno imparato l’arte del nascondersi nei bunker in pochi istanti, quandi le sirene annunciano i razzi di Hamas – giocano a racchettoni e sgasano con le jeep d’importazione americana sulle dune di sabbia; oltre la torretta un milione di poveracci non può nemmeno andare a pescare, in ottemperanza dell’assedio israeliano e per colpa dei crimini di un manipolo di banditi corrotti e fanatici che li governa.

Proviamo a entrare a Gaza dalla spiaggia, dopo che ci hanno già bloccato in macchina. Dalla torretta di sorveglianza parte un allarme continuativo che ci rispedisce indietro, tra i racchettoni e i barbecue.

Anche nel giorno del riposo, la vigilanza non dorme mai. GeGiù disapprova sentitamente, e con ogni probabilità anche l’originale che camminava sulle acque.

[bruceremo all’inferno, si sa: Gabri dice che è colpa dell’educazione libertina ricevuta in Val di Chiana. Io però son andata a scuola dalle suore].

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Dispacci, Negev #6

Atto primo

Deserto, deserto, ancora deserto. Di sabbia, di roccia, di minerali ferrosi mescolati a sale e a sabbia. Bellezza abbacinante, tagliente, desolante. Ricordi del Sahara, del Mojave, dei Sahrawi, della Death Valley e di tutti i posti in cui ancora non s’è stati ma si spera di andare.

Dopo ore di deserto, l’insegna del kibbutz Lotan, presentato dai local mainstream come l’avanguardia dell’innovazione ecosostenibile, pare un miraggio: avranno della frutta? Ci sarà una cerimonia di collettivismo da raccontare? I bambini crederanno nel dio deserto e nel mito della frontiera?

La risposta sta nel frigo del microsupermarket zeppo di Coca-Cola e Fettuccini alfredo surgelati, pizze e gelati Nestlè, venduti da una ragazzina attaccata a WhatsApp: se l’agricoltura funziona, non si vede granché. 

Qualche famiglia s’aggira in quella che in larghe parti sembra più una discarica che un’oasi di verde e pace; l’erba c’è, a dire il vero, ma nella parte riservata alla guest house per turisti: un micro resort nato dalle ceneri del socialismo reale, e tanti saluti a Ben Gurion. 

L’unico segno di speranza sono i pomodori: ne compriamo mezzo chilo nel mercatino, ché il sole ci ha riarso anche le papille gustative, e riprendiamo il cammino. A un’ora di distanza c’è Eilat, il luogo simbolo dell’unione di tre mondi: Africa, Asia e Terra Santa. La coda lunga di una terra riarsa che s’affaccia solo per pochi chilometri sul Mar Rosso, la cui importanza geostrategica si misura dalla dimensione delle bandiere piantate dai tre confinanti: quella giordana da sola è grande più o meno come l’intera fetta di spiaggia che tocca al Paese (gli israeliani invece puntano sulla quantità: i più solerti ne hanno una anche sull’auto, i migliori sionisti addirittura due). 

Eliat ha subito chiaramente l’influenza del gigantismo americano e del kitsch russo: gli hotel con piscina pompano musica techno a volumi da audiolesi alle 5 del pomeriggio,  le spiagge sono invase da rossori incontrollati e sorvegliate da navi cargo e vedette militari che stazionano nelle baia. La passeggiata mare unisce tre nazioni con il collante del cattivo gusto: negozi di chincaglierie, giostre stile Las Vegas, musica alta, camerieri scocciati, buttafuori muscolosi, donne con tacchi troppo alti o veli troppo lunghi.

La prospettiva di mangiare infine pesce ci pare allettante; il sushi bar confinato in un centro commerciale di raro squallore restituisce realtà alle aspettative, e rende chiaro che qui noi non ci si può stare. A questo surrogato di cemento ingrigito della strip di Vegas preferiamo la strip di Gaza. 

Atto secondo

Deserto, deserto, ancora deserto. Colline, canyon, distese chilometriche di roccia e sabbia, disseminate solo di postazioni militari.

Procediamo lungo il confine con l’Egitto, a un metro di distanza dal muro di filo spinato e rete metallica che separa Israele dal Sinai. Da un lato e dall’altro della barriera solo desolazione, sole e soldati nelle garritte, grondanti sudore e – immaginiamo – malinconia di casa, della fidanzata, del caos della città.  

Carri armati, torrette e trincee sono l’unica cosa su cui si appoggia lo sguardo per decine o forse centinaia di chilometri. Come si può fare la guerra per questa cosa qui?, ci chiediamo quasi increduli, ben sapendo che la risposta non sta nel campo del razionale, e forse nemmeno nella teoria delle religioni del Galimberti. Deve essere molto più prosaica, come il cocktail bar da cui siamo scappati a Eliat. 

Atto terzo

Deserto, deserto, ancora deserto. 

Tanto deserto che la poesia e il prosaico finiscono col mescolarsi: ma come si giudica in fondo la poesia? Il cavalletto puntellato su roccia e l’obiettivo che inquadra le chiappe del Galimberti, in una mitica (o mitologica) riedizione della fotografia di paesaggio, come andrebbero definite?

Schiaccio il clic, immortalo la beltà e mi consegno a mia volta alla storia, scendendo giù da uno dei migliori canyon del deserto per donare la mia culata al pensiero fotografico mondiale. E cado, rotolo un poco, mi escorio. Sto in cima a una roccia affacciata sul nulla, piegata a mostrare il didietro, sperando di non far la fine dell’auto schiantata nel burrone.

 Sei portata per le culate commenta Gabri: e dev’essere un po’ quello che Irving Penn diceva a Isabella Rosellini, se non ricordo male. 

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Dispacci, Negev #6

Ore dopo guidavamo nel nulla lunare del deserto del Negev, con le scarpe da ginnastica attaccate agli specchietti retrovisori per farle asciugare dopo l’affondamento in una pozza salata e prima di fermarci in un McDonalds con gli archi piantanti nella roccia a mo’ di bandiera di Armstrong, e Galimberti ha raffinato il concetto:

No, son serio: non è un caso che tutte le religioni più severe sian nate qui, eh. Guàrdate intorno: nun c’è nulla. Nasci qui, dici e ora che cavolo faccio? E t’attacchi al tuo dio.  Facce’ caso: le religioni più bonaccione, più fricchettone, son nate tutte in posti meno ostili, se sta meglio là. Dico cazzate?


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Dispacci, Ramallah #5

Ore passate a chiederci se e come superare il checkpoint in macchina – ma glielo chiediamo all’assicurazione se si può? ma ci portiamo dei libri da mostrare? ma al limite parcheggiamo la macchina e andiamo a piedi dall’altro lato? – e poi la AiGo bianca motorizzazione probabilmente 600 ma forse anche due e mezzo che ci hanno noleggiato ha passato il confine Gerusalemme-Ramallah senza che nessuno chiedesse nemmeno un documento. 

Il consueto casino di Ramallah ci ha risucchiato in men che non si dica: strade sempre sporche, attraversate da automobili praticamente in qualsiasi direzione possibile – diagonale rispetto al senso di marcia, suonando il clacson in continuazione, tra le preferite -, urla di venditori e, invenzione recente, altoparlanti che trasmettono l’intero prezzario della merce esposta senza soluzione di continuità.

Abbiamo parcheggiato come si fosse sui Navigli, tra un camion carico di foglie di vite e uno scassone senza marmitta, e siamo andati a cercare un posto per pranzo. Dalla mia ultima volta in Palestina qualcosina è cambiato – la circolazione  nei Territori e il passaggio con Israele sono decisamente più agevoli, i checkpoint pochi e poco presidiati (con un passaporto internazionale in tasca, certo: e non è una precisazione da poco contando che di là dal Muro non ce l’ha nessuno) – ma non certo la varietà della cucina.

Al decimo pasto consecutivo di shawarma (il contenuto del kebab, per essere meno aulici: che a Tel Aviv costa 20 euro nel posto più economico), ci siamo presentati davanti al consueto baracchino invocando anche solo una qualche forma di cous cous.

What you want?

What you have? 

Shawarma chicken. Or shawarma meat.

Rimandando la lezione sul mondo animale, ché la gerarchia della carne è più complessa ancora di quella degli ordini religiosi, abbiamo optato per il chicken. (Com’è che il pesce non entri nella dieta mediorientale non si spiega nemmeno con le prescrizioni kosher, che peraltro ai musulmani interessano poco: ma forse le Nazioni Unite dovrebbero iniziare ad occuparsene).

Prima di andare all’appuntamento coi miei amici palestinesi abbiamo guidato in mezzo al deserto che si apre appena fuori da Ramallah, prima costeggiando il muro dello scempio e poi tra colline di sassi e cespugli, in cui l’occhio può perdersi senza incontrare altro che rare baracche di lamiera abitate da beduini semi stanziali e complessi di cemento che parrebbero costruiti coi Lego: regolari, geometrici, perfettamente perimetrati, funzionalmente escludenti. Sono gli insediamenti dei coloni, naturalmente, recintati e angoscianti: per quanti soldi ti possa dare un governo per insediarti in mezzo al deserto e togliere terra agli altri, o per quanto il tuo dio possa suggerirti di farlo, ci vuole un certo stomaco per dedicare qualche anno della propria vita a rendere ospitale la roccia nuda e incandescente.

Arrampicati in cima a un cuccuzzolo, col sole a picco e la luce come lame negli occhi, il celebratissimo fotografo Gabriele Galimberti si è preso tre minuti per rivedere la storia della religioni: Secondo me ‘na mattina se so’ svegliati e c’era più caldo del solito, gli giravano i cojoni, gli son prese le visioni e ognuno s’è messo a pensare a un dio diverso.

Versione for dummies, ma magari non troppo.

[di Gerusalemme parleremo poi: basti dire per ora ch’eravamo ospiti da David Guetta]

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Dispacci, Tel Aviv #4

La generazione con la divisa e il mitragliatore si è palesata di colpo, dopo due giorni che incontravamo solo hipster in canottiera collegati a grinder, dog sitter per famiglie affluent ed arabi israeliani di ogni età e tipo, rumorosi e bruschi come i loro cugini dei Territori. 

Eravamo in centro, nei pressi dell’auditorium, forse il solo posto in cui la città sembra davvero una città. I militari ragazzini erano radunati disordinatamente, un po’ seduti in gruppetti – telefono in mano e fronte sudata – un po’ sdraiati per terra, al riparo dal sole. Ci stavamo chiedendo come mai fossero tutti lì quando ci siamo girati e abbiamo visto una spianata di zaini, divise e mitra, impilati a decine, come fossero bastoncini dello shanghai. E in fondo a tutto, quasi nascosto dagli zaini e dai fucili, ce n’era uno con la chitarra in mano, straniato e straniante nel suo tentativo di normalità.

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Dispacci, Tel Aviv #3

La prima mattina è trascorsa in spiaggia, ché con 37 gradi e altrettanti chilometri di sabbia bianca sarebbe stato difficile fare altrimenti.

Abbiamo pedalato su un lungomare che avrebbe potuto essere Rio o la Barceloneta, zeppo di gente e delle loro stranezze: runner appanzati con le radio sotto braccio, caschi integrali su honda mille che sgasano da ferme, giapponesi ricoperti di simil-burkini integrali in tessuto ultra tecnico per non cuocere al sole. 

Dappertutto bandiere d’Israele, musica e le schioppettate ritmiche di una speciale varietà di racchettoni di cui si consumano tornei infiniti, con colpi sordi e precisissimi che da lontano sembrano percussioni africane e da vicino tentativi di catarsi di ventenni che passano la giovinezza con la divisa addosso e un mitragliatore in mano.

In effetti poche ore dopo un’amica di amici, nel salotto di una casa ottomana nella vecchia Jaffa, ci ha raccontato di aver trascorso il weekend a fare da volontaria in un festival in cui militari in libera uscita consumano litri di alcol e acido lisergico per dimenticare il mondo; poi, cotti, cercano l’aiuto dei volontari per uscire dai propri incubi. A volte funziona; spesso no. 

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Dispacci, Tel Aviv #2

La morte degli stereotipi, o di come siamo arrivati nell’aeroporto più sicuro e blindato del mondo e nessuno ci ha chiesto, controllato o contestato nulla.  Tempo per passare la sicurezza: 30 secondi esatti, a fronte di ore trascorse a sentire descrizioni terribili di come avrebbe potuto essere. Abbiamo pensato che fosse per via della preparazione allo shabbat, il sabato ebraico – meno addetti, meno attenzione, tutti concentrati a pregare – ma è stato chiaro appena arrivati a Tel Aviv che dello shabbat non gliene frega troppo a nessuno. 

 Credevo di arrivare a Miami, mi son sentita a Beirut. Man mano che il tassista si avvicinava a Florentine, il quartiere working class e ad alto tasso di immigrazione in cui abbiamo preso un garage trasformato in casa, più le case palazzine squadrate e sgretolate, con i fili della luce a penzoloni e i marciapiedi ingombri di calcinacci, facevano a pezzi la mia idea preconcetta di Tel Aviv (Gabri, poi, mi ha smontato anche quella di Miami: dice che oltre ai vetri, alle piscine e ai fisicati c’è molto di quel mescolone culturale per cui vado pazza. Lezione: non pensare troppo ai posti che non conosci, vacci e basta). 

Abbiamo ribattezzato il quartiere sganghy, sgangherato, e ci siamo messi a camminare un po’ a caso. L’ora di cena  era già passata da un pezzo e le strade – ancora una volta – sembravano meno piene di quello che ci si sarebbe aspettati dalla città che non dorme mai: solo dopo ho capito che i party di Tel Aviv iniziano dietro a porticine spesso anonime, nere e senza insegne. Per indicarle bastano i ragazzi in canottiera e facce disegnate che appaiono sui marciapiedi poco distante, disseminando indizi di un divertimento parecchio ferormonico. 

Ci siamo diretti al mare, zigzagando tra i richiami di festicciole improvvisate nei balconi di cemento sbucciato di ogni palazzo.  E qui, infine, il movimento: grappoli di persone sdraiate in sulla sabbia a bere o a parlare, e altre appena rinvenute dalla spiaggia in coda fuori da una gigantesca panetteria araba i cui muri, molto tempo fa, devono essere stati blu cobalto. Vuoi vedere che è quella che mi ha consigliato il mio studente?, ho pensato: e lo era, e già la strana euforia nei confronti della città che m’aveva preso appena scesa dal taxi si stava trasformando in passione.

Poco più in là, altri ragazzi stavano improvvisando un rave fuori da una macchina, mentre adulti con bimbi al seguito restituivano le bici in sharing. Cento metri oltre, nel parco enorme che costeggia il mare, ci ha investito l’odore di carne alla griglia. Lo abbiamo seguito e così, a mezzanotte, siamo incappati in un matrimonio etiope (o forse eritreo):  donne in bianco, uomini vestiti bene, lunga tavolata, due o tre a presidiare la brace. Ma mica erano i soli:  tutto il parco stava grigliando qualcosa. Decine di piccoli barbecue sfrigolavano di fronte a famiglie sdraiate su enormi teli colorati, o a giovani raccolti tra la griglia portatile e il narghilè:  arabi israeliani per lo più, ma non solo. 

E se lo spettacolo non fosse abbastanza assurdo, di quell’inconsuetudine capace di farmi innamorare in un istante con intensità direttamente proporzionale alla distanza col mio vissuto, abbiamo buttato un occhio giù, all’ultimo lembo di spiaggia, dove decine di persone passeggiavano giocando con la risacca, mentre i bambini sghignazzavano costruendo un castello di sabbia. 

Ho ripensato ai miei amici di Ramallah: se avessero potuto essere in quel parco con noi, forse qualcuno dei loro preconcetti si sarebbe sciolto insieme ai miei. 

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Dispacci, Istanbul #1

È strano, o forse inquietante, come la vita sembri scorrere normale nei posti che normali non sono più. 

A una settimana dal referendum – forse truccato – con cui Erdogan ha di fatto ottenuto il potere quasi assoluto, nell’aeroporto cittadino di Istanbul centinaia di persone vanno e vengono, acquistano oggetti, provano  profumi, rossetti, auricolari per l’iphone. 

Nell’unico ristorante con una connessione wifi, un tavolo è occupato da un gruppo di stranieri con le teste rasate che sembrano dipinte, o ricoperte di mercurio cromo: hanno per lo più barbe lunghe e visi scuri, forse arrivano dagli Emirati o da altri Paesei arabi. Scopro con incredulità  che si tratta di trapianti di capelli: l’industria qui è evidentemente florida e forse economicamente più accessibile – Gabri, che passava da questo stesso aeroporto poche settimane fa, ha visto parecchi trapiantati che poi si sono imbarcati per l’Europa, Italia inclusa – e la Turchia sta diventando la mecca dei pelati loro malgrado.

Mentre Erdogan rinchiude i giornalisti, vieta le manifestazioni, erode i diritti, mezzo mondo corre qui per farsi rimettere i capelli: islam, capitalismo e tricologia.  

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Chile Dispacci #4

Appuntamenti e spostamenti, istruzioni per l’uso. 

Per ottenere esatta distanza di percorrenza, moltiplicare per 2 (esempio: se vi dicono 40 minuti, calcolarne circa 80); per gli incontri, aggiungere dai 15 ai 20 minuti;  durata media di un pasto, ore due; orario di imbarco da traslare di 30 minuti più in là. 

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Dispacci Chile #3

La tenuta è in sobbuglio: per il primo anno dalla sua fondazione, quest’anno il Cile non è passato all’ora legale. Solo che metà della popolazione non lo sapeva, e quindi stamane il personale di servizio non si è presentato, le sveglie delle stanze degli ospiti non sono suonate, le escursioni sono saltate. 

Lo trovo fantastico: soltanto in un Paese sudamericano (e hispanico) può succedere. Oye, lo siento, es que no me he enterado. Altro che realismo: questo è il non sufficientemente celebrato sconvoltismo magico.

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