Archive for category gea and the city
piovono pietre
Posted by gea in gea and the city on February 25, 2011
Mi pare un segno chiaro del destino se sotto la prima casa che vado a vedere, quasi disposta a indebitarmi con un mutuo 40ennale per comprare 50 metri quadrati, c’è questa scritta qui.
Se non ora, quando?
Posted by gea in gea and the city, politica e dintorni on February 13, 2011
La settimana scorsa, dopo la manifestazione del Palasharp, ho scritto un pezzo che ha scatenato anche un piccolo dibattito su altri giornali. La sostanza era che in queste occasioni di riscossa civica i giovani sono sempre meno presenti: non perché non si interessino a quello che succede, ma perché è la politica li ha presi in giro per troppo tempo.
Continuo a pensare che sia verissimo. Ma oggi la risposta all’appello di Se non ora, quando? è stata quasi commovente. A Milano, sotto una pioggia che sembrava un castigo per aver avuto il coraggio di rialzare la testa, c’erano decine di migliaia di persone, e un sacco di ragazzi. Ho avuto la sensazione precisa che la misura sia quasi colma, per tutti. La risposta della gente è appassionata, il desiderio di riscossa palpabile.
L’altra notte, mentre guardavo le foto della festa di piazza Tahrir, ho pensato: Come devono essere felici. E come un’epifania mi ha folgorato il pensiero che la prossima festa sarà la nostra. La cosa pazzesca è che la sensazione di liberazione non sarà nemmeno troppo diversa.
La foto che ho fatto oggi in piazza Castello dice tutto.
per tutto il resto c’è geolina
Posted by gea in gea and the city on February 12, 2011
Ricevere la telefonata di un ex che ti comunica che l’attuale fidanzata si rifiuta di parlargli da quando le ha proposto uno dei programmi per san valentino che tu avevi suggerito su un giornale non ha prezzo. Per tutto il resto c’è geolina.
l’arte di raccontarsi
Posted by gea in gea and the city on February 11, 2011
Poi un giorno ti squilla il cellulare e, senza alcuna avvisaglia, qualcuno che finora avevi letto con un misto di invidia e ammirazione ti chiede di scrivere un pezzo. E tu dici Sì, certo, scherzi. Poi però vogliono anche una foto e una bio, e hai dieci minuti per pensarci. E tu non trovi nulla di meglio che dire, Emh, ho trent’anni ancora per poco, ho smesso di mangiare la carne e guido una moto.
Appunto mentale: allenarsi sulle agiografie.
Piazza Tahrir, Milano
Posted by gea in gea and the city, personaggi, viaggi on February 5, 2011
Sono stata alla manifestazione di Libertà e Giustizia, proseguimento ideale di quel Resistere! Resistere! Resistere! con cui Borrelli quasi dieci anni fa risvegliò le coscienze italiane già assuefatte al berlusconismo.
Ci sono andata combattendo la stanchezza e la pigrizia, ma ne sono uscita rigenerata.
C’erano dieci mila persone. C’era l’Italia che non solo non si rassegna, ma sa fare chiarezza in un presente deviato e pruriginoso. C’erano oratori di capacità eccezionale, da Gustavo Zagrebelsky a Umberto Eco, passando per Roberto Saviano, Concita De Gregorio, Susanna Camusso. C’era la voglia di insistere: per riprendersi, prima ancora dell’Italia, dei temi di discussione degni di questo nome. Non il Bunga bunga ma il lavoro, i giovani, la cultura. In un crescendo di consapevolezza.
Ha parlato Loretta Zanardo, l’autrice del documentario Il corpo delle donne, summa spiegazione della società dell’immagine che crea ragazzine anoressiche e 16enni che prendono 9mila euro a sera per farsi guardare dal presidente del consiglio. Tra le molte cose intelligenti che ha detto (“Un altro corpo è possibile” diventerà il mio mantra), mi ha colpito l’invito a non spegnere la televisione come gesto di egoismo e autodifesa. Ha spiegato, in sostanza, che finché le persone dotate di senno e capacità critica continueranno a rifiutare di entrare in contatto con i mostri che la tivù ha prodotto – da Non è la Rai a Uomini e donne c’è solo l’imbarazzo della scelta – sarà impossibile capire quanto e perché tutto sia precipitato. Bisogna conoscere il nemico, per abbatterlo. E bisogna aggregarsi per trovare il coraggio e la volontà di articolare una risposta forte e comune.
Lei lo ha fatto producendo il film, che oggi è diventato materia di studio in molte scuole. E’ illuminante per capire la condizione femminile e, più in là, anche certe forme degenerative dei rapporti interpersonali: fino ad arrivare ai festini di Arcore.
Concita ha letto il fondo che aveva scritto per l’edizione odierna dell’Unità: un pezzo stupendo, lucido e commovente. Da stampare e appendere sopra al letto, come una poesia che si recita nei giorni tristi.
E mentre Moni Ovadia invitava tutti alla mobilitazione permanente, ché di questo c’è bisogno oggi, per un secondo mi sono sentita parte di una resistenza. Gad Lerner dal palco aveva appena dato notizia delle dimissioni dal vertice del partito di Mubarak, e ho pensato che, con le dovute proporzioni, il Palasharp in quel momento era la nostra piazza Tahrir. Senza carri armati ed esercito, ma comunque segno di una rivoluzione delle coscienze. Di un Non ci sto tracimato dagli animi esausti, da vite segnate in molti modi da vent’anni di scempio politico, umano e istituzionale. E di diritti negati: perché anche quello al giusto salario o alla possibilità di mettere al mondo un figlio è un diritto inalienabile.
fuoriclasse
Posted by gea in gea and the city, giornali e dintorni, personaggi on January 25, 2011
Ma se scrivo per altri vent’anni, divento brava così?
(nel dubbio, ho rinnovato l’abbonamento a Gq)
La conversazione dell’anno
Posted by gea in gea and the city on December 26, 2010
Io ho bisogno di una donna che mi dia delle sicurezze, non della reporter d’assalto.
Bè, e io ho sempre voluto un uomo che morisse in guerra.
The time has come/2
Posted by gea in gea and the city, musica on December 23, 2010
Quest’anno è dura. Riassumere il 2010 in una lista di canzoni mi costa una certa fatica. Ho dormito troppo poco e in troppi posti, galleggiato su un’altalena emotiva schizoide almeno quanto la frenesia con cui sono salita su ogni treno, aereo, furgoncino scassone e moto ai famosi quattro angoli del globo. Ho ascoltato Bob Dylan appoggiata ai finestrini di qualsiasi mezzo di trasporto, dall’Equatore al Medio Oriente. Mi sono accanita sui Rolling Stones, letto tutto quello che si poteva leggere, rimediato al peccato originario dell’essere nata nell’80 mandando a memoria ogni nota dal ’62 in poi. Ho corso con Jarvis Cocker in cuffia sui lungomare di confine, tra il Tamigi e Israele. Trascorso notti intere con un paio di pezzi in loop, mentre il sonno non arrivava e i pensieri si affastellavano sempre più pesanti.
E devo fare uno sforzo grande davvero per decidere cosa porterei con me quest’anno sulla famosa isola deserta: un motivetto pop con il potere inspiegabile di doparmi di energia o la più struggente canzone d’amore di tutti i tempi? Alla fine, lo so, sarebbe la-più-struggente. Che è anche la più densa, quella che nella struttura di un quasi sonetto condensa la storia universale dell’amore.
Nello striminzito bagaglio a mano concesso dalle low cost in rotta per nowhere land, ci metterei Girl from the north country: ode al poeta come più non ne sono nati.
Il resto me lo canticchierei a mezza voce o a squarciagola, in onore di quella suprema performance al Rah bar con la Marti, in una serata di sbronze e karaoke.
Girl from the north country, Bob Dylan, 1963 Un pullmino scassato, in Libano. Siamo diretti a Tiro, confine con Israele. Fuori il cielo è di un azzurro sporco, carico di sabbia, polvere da sparo, eco di guerra e salsedine. Il vento che piega le palme mi spazza l’anima della gioia incontenibile di una terra di struggente bellezza. E la prima cosa che mi viene in mente sono i versi di questa incredibile canzone: If you’re traveling in the north country fair/Where the winds hit heavy on the borderline/Remember me to one who lives there/She once was the true love of mine/Well, if you go when the snowflakes storm When the rivers freeze and summer ends/Please see for me if she’s wearing a coat so warm/To keep her from the howlin’ winds/Please see from me if her hair hanging down/If it curls and flows all down her breast/Please see from me if her hair hanging down/That’s the way I remember her best. Il riassunto di ogni amore.
Common people, Pulp, 1995 Ci vuole un talento smisurato per cantare con quella voce suadente
delle storie così allegre e allucinate. Come se ti stesse sempre prendendo in giro. Jarvis è un genio; Common people la mia canzone più ballata dell’anno.
Shine a light, Rolling Stones, 1972 Perché Brian Johnson era appena morto, Exile è il disco più bello degli Stones e Keith Richards e Anita Pallenberg si amavano ancora alla follia sui tappeti del Marocco. La vita inarrivabile.
Coming back to life, Pink Floyd, 1994 Qui lo dico, e l’anno prossimo lo negherò. Io preferisco
David Gilmour. E comunque questo verso è un mantra: I took a heavenly ride through our silence/I knew the moment had arrived/For killing the past and coming back to life.
Monkey gone to heaven, Pixies, 1989 A metà degli anni ’90, quando vivevo a Washington, era esplosa la Bloodhound gang. In Italia sarebbe arrivata qualche anno dopo, ma mai con il primo disco, ovviamente il più divertente, The roof is on fire. La canzone omonima aveva un ritornello che mi ha sempre fatto ridere: So if man is five and the Devil is six/than that must make me seven/This honkey’s gone to heaven. Solo che proprio non riuscivo a capire a cosa si riferisse. Quando ho scoperto i Pixies tutto è tornato. E per chi ama l’annedotica, loro erano il gruppo preferito dal dannato per antonomasia, Kurt Kobain.
Just Breath, Pearl Jam, 2009 Una afosa notte d’estate in cui per qualche ora la vita mi è sembrata perfetta. Il resto l’ho già scritto qui.
Sweet desposition, The temper trap, 2009 Non chiedetemi perché, non ve lo so spiegare: vi basti sapere che ho persino comprato il singolo. Loro non so nemmeno che faccia abbiano, ma è una dose di andrenalina che mi anestetizza dal resto del mondo. Scaricatela e ditemi se vi fa lo stesso effetto euforizzante: mi basterebbe a pensare che non sono pazza.
Empire state of mind, Jay-Z ft. Alicia Keys, 201o C’ho persino scritto un pezzo, su Jay-Z. Perché diciamocelo: è un tamarro, ma è un genio. E a me questa canzone trasporta su una spiaggia, in estate, con mojito, abiti leggeri e tutte quelle cose che stanno al primo posto nella mia personale classifica della voglia di vivere.
Hemingway, Paolo Conte, 1982 Per quel sax pazzesco, capace letteralmente di portarmi via. Normalmente sulla Firenze mare, pini marittimi e la sensazione che tutto debba ancora succedere.
Dress up in you, Belle and Sebastian, 2006 C’è una tristezza che monta, in questa canzone, che rompe gli argini della mia malinconia e tracima in ogni angolo del corpo. E penso sempre che racconti in filigrana la mia storia, guardata da una certa prospettiva (non la mia). I always loved you/You always had a lot of style/I’d hate to see you on the pile/Of nearly-made-it/You’ve got the essence, dear/If I could have a second skin/I’d probably dress up in you/You’re a star now, I am fixing people’s nails/I’m knitting jumpers, I’m working after hours/I’ve got a boyfriend, I’ve got a feeling that he’s seeing someone else/He always had thing for you as well.
Sarajevo here we go
Posted by gea in gea and the city, viaggi on December 22, 2010
Deve esserci una ragione se ogni volta che sto per partire per un posto in cui per salutarsi si spara con il kalashnikov mi vengono la febbre e le placche in gola.
Forse il vecchio barbuto cerca di salvarmi la pelle.
The time has come/1
Posted by gea in gea and the city on December 17, 2010
Va bene, ci siamo. Ringalluzzita da Obama, ho deciso di affrontare l’estrema prova: il Monte Bianco.
Ricetta Chiucchiurlotto, con il Mac (sullo sfondo) a fare da gobbo. Un rito iniziatico: mia madre preparava il dolce due volte all’anno, per il suo compleanno e per quello di mio padre, entrambi in autunno.
Ho deciso che era l’ora di diventare donna.